Gigliola Foschi
Una mostra con artisti che non sono né cinesi, né italiani e neppure tedeschi, francesi o americani, ma portatori di una cultura duplice o addirittura molteplice, perché nati in paesi diversi da quelli in cui vivono e lavorano. È Wherever We Go – Ovunque andiamo: Arte, identità, culture in transito (Spazio Oberdan, Milano, fino al 28 gennaio) curata da Gabi Scardi e da Hou Hanru che, in sintonia con gli artisti in mostra, è a sua volta un globe-trotter nato in Cina ma residente a Parigi. Si tratta di autori provenienti da ogni parte del mondo emigrati a volte per scelta a volte per necessità, ma sempre sospesi tra due o più mondi come accade ormai a milioni di persone. Ma in che modo le loro opere affrontano tale condizione di sradicamento? Ne discutiamo con la curatrice Gabi Scardi, critico d’arte che anche in un’altra recente mostra, Less – Strategie alternative dell’abitare (aprile-giugno 2006, PAC di Milano), ha dimostrato come gli artisti possano riflettere in modo profondo e impegnato sulle problematiche più significative della contemporaneità.
Questi artisti cosmopoliti che cosa ci dicono su identità e multiculturalismo? Si avverte in essi nostalgia delle origini perdute o tendono a sottolineare la piena integrazione nel nuovo mondo in cui vivono?
«Dalle opere di molti artisti si capisce che per loro l’identità non si presenta più come un possesso stabile, statico, acquisito una volta per tutte, bensì come un processo in continua crescita, un movimento fatto di confronti, scambi, incontri tra culture. “Le tigri per essere tali non hanno bisogno di proclamare la propria tigritudine”, sostiene lo scrittore nigeriano Wole Soyinka. Allo stesso modo questi artisti non affermano né sottolineano la loro identità: semplicemente la vivono sfuggendo a ogni semplificazione e definizione. Sospesi tra due o più mondi avvertono la necessità di far convivere nelle loro opere visioni diverse del mondo, mantenendo aperto un dialogo continuo e vitale sia col presente sia con le memorie e i miti del loro paese d’origine. Invece di farsi portatori di una logica oppositiva e assertiva – la mia identità contro la tua – s’impegnano ad accettare la complessità del mondo in cui vivono, e ci rivelano che, a partire dalle esperienze vissute, un’identica domanda può ottenere risposte molteplici e anche contraddittorie».
Ad esempio?
«Potrei citare Maja Bajevic e Danica Dakic. Entrambe cresciute a Sarajevo, ma ora residenti la prima a Parigi e la seconda a Düsseldorf, propongono un’opera a quattro mani in cui in bosniaco ci spiegano perché amano Sarajevo, mentre in francese e in tedesco ripetono le stesse frasi dicendo esattamente il contrario. Migrare, per loro, ha infatti significato dover cambiare se stesse, interrogarsi da un nuovo punto di vista sul loro paese d’origine e viverlo come un luogo non più unico, mitico, intoccabile. Tale sguardo critico, “da fuori”, non significa però che si debba perdere il legame con la propria terra. Come spiega la stessa Bajevic, si può “imparare ad apprezzarne non l’immagine mitizzata ma il rovescio della medaglia, i piccoli misfatti, le debolezze della tanto amata ’casa’ propria”. Il loro enunciare “io odio Sarajevo…”, subito dopo aver detto “Io amo Sarajevo…”, diventa il segno di un costante legame con la loro città, non più acritico ma accompagnato dalla capacità di vederne anche i difetti».
Al multiculturalismo come rigida coesistenza di universi impermeabili questi artisti oppongono il transculturalismo, Tale condizione si rivela come possibilità di apertura al nuovo, o determina tensioni tra memoria e nuova identità, passato e presente?
«Acquisire un’identità plurima significa sentirsi ovunque al proprio posto ma anche un po’ estranei al luogo in cui ci si trova a vivere. Tale posizione “periferica”, non pacificata, genera inquietudine, spinge a riflettere su di sé, a mettersi in gioco, e proprio per questo si rivela “feconda”. In una video-performance H.H. Lim, nato in Malaysia e residente a Roma, ad esempio, mostra se stesso mentre cerca di rimanere tenacemente in equilibrio su un pallone, e in questo modo ci comunica tutta la difficoltà di trovare una stabilità interiore in un mondo sempre più incerto e mutevole. Altri autori sottolineano di più, quasi sempre con leggerezza e senza malinconiche nostalgie, il loro bisogno di preservare qualcosa delle loro radici, proprio per avere poi la forza di affrontare nuove realtà. La cinese Shen Yuan, ovunque si rechi in viaggio, visita per prima cosa le Chinatown del posto; poi riproduce le mappe di tali Chinatown realizzando patchwork di tessuti con cui fodera dei materassi elastici, concepiti per invogliare i bambini a saltarci sopra. Ludici e divertenti i suoi “Trampolin” ci invitano a giocare, ma anche a comprendere come solo a partire dall’accettazione delle proprie origini sia possibile spiccare un salto verso nuove esperienze aperte al dialogo con gli altri».
Molti artisti «migranti» vivono una condizione di esilio, come Adel Abdessemed, fuggito in Francia da un’Algeria lacerata dal conflitto civile. In che modo questi artisti si pongono di fronte alle tragedie del nostro tempo?
«Diversi artisti presenti in mostra riflettono sulle ingiustizie e i drammi della globalizzazione, mai però in modo piattamente esplicito o polemico. C’è chi riesce a criticare le dinamiche del potere globale con atteggiamento ironico e velatamente surreale, come il cinese e parigino Huang Yong-Ping con la sua scultura di un mastino napoletano che lascia dietro di sé un getto di urina simile al profilo degli Stati Uniti. C’è chi ci obbliga con uno “stratagemma” a vedere realtà dalle quali distogliamo gli occhi, come Ni Haifeng, cinese ma residente ad Amsterdam: in un’umile scatola di cartone posta a terra egli pone due piccoli video che narrano storie di homeless; e così per vedere l’opera, siamo costretti ad abbassarci ponendoci in una situazione di inusuale prossimità rispetto a vicende umane che di solito rimuoviamo. Mentre Keren Amiran ( israeliano ma londinese di adozione), ha creato un video poetico che ha per protagonista una donna filippina reclusa nella casa della sua datrice di lavoro per paura di essere espulsa dal paese in cui è entrata clandestinamente; unico interlocutore a cui poter confidare paure e memorie è una tartaruga: sorta di alter ego costretto come lei a rifugiarsi dentro di sé, a nascondersi dietro una corazza difensiva».
Adrian Paci ha raccontato che in Albania, le informazioni sull’arte si fermavano all’impressionismo. Con l’arrivo in Occidente molti di questi artisti hanno potuto conoscere il linguaggio contemporaneo dove coesistono video, fotografie, pittura e installazioni. Se ne sono impadroniti con facilità? E qualcuno ha poi recuperato le forme artistiche del paese d’origine?
«Tutti gli artisti in mostra rivelano di aver fatto proprio fino in fondo il linguaggio contemporaneo ed evitano ogni esotismo culturale. Nei loro lavori non c’è nulla di pittoresco, nessun colore locale, niente di etnico. Più che recuperare le forme artistiche dei paesi d’origine, rielaborano le storie, i riti e le memorie della terra da cui provengono. Adrian Paci inscena ad esempio il proprio funerale secondo gli antichi rituali albanesi; ma, alla fine del canto sofferto della lamentatrice, lui si alza e se ne va. Ci racconta cioè il dolore delle partenze e dei lutti, ma anche il bisogno di trovare il coraggio e la speranza di aprirsi a una nuova vita. Uno dei pochi autori che in apparenza sembra recuperare i simboli religiosi della sua terra è l’algerino Adel Abdessemed; ma lui li accoglie per metterli in discussione, per scompaginarli in un frenetico filmato d’animazione, dove i simboli islamici si tramutano vorticosamente in arabeschi, in simboli ebraici, in motivi geometrici, il tutto senza soluzione di continuità. Con questa sua opera dal titolo graffiante, God Is Design, egli ci conduce provocatoriamente in un mondo dove i simbolismi religiosi e culturali si trasformano in una caotica e inafferrabile ragnatela di codici, e nulla sembra stare più al proprio posto».