Un incontro con la fotografa di Marrakesh Lalla Essaydi. Le sue immagini lavorano intorno all’identità femminile «dipingendo» storie e diari sulla pelle con l’henné. «Il mio lavoro ribalta lo stereotipo dell’harem e delle donne arabe viste solo come oggetto sessuale.”
di Manuela De Leonardis
Due appuntamenti per Lalla Essaydi (Marrakech 1956, vive tra il Marocco e New York) a Paris Photo 2009. Elegantissima e impeccabile, l’artista ha presentato – per la galleria newyorkese Edwynn Houk – il suo primo volume monografico, Les Femmes du Maroc (2009) con testo di Fatima Mernissi, di cui è una fedele lettrice (uno dei suoi libri preferiti è Sheherazade Goes West: Different Cultures, Different Harems). Tra le foto esposte anche Grande Odalisque (2008), moderna interpretazione dell’opera di Ingres. Il corpo della modella – una ragazza araba, come sempre nelle opere di Essaydi (anche il drappeggio, nonché l’ambiente in cui è collocata la scena), sono ricoperti di calligrafia araba tratteggiata con l’henné. L’opera, parte della collettiva Ingres et Les Modernes (approdata al Musée Ingres di Montauban), è stata acquistata dal Louvre per la sezione di arte contemporanea.
Il booksigning di Nazar. Photographs from the Arab world, nello stand dell’Aperture Foundation è il secondo appuntamento. L’artista, dopo Parigi, tornerà a Marrakech ad ultimare il lavoro per Biennale di Alessandria (dal 17 dicembre al 31 gennaio 2010). Non ama parlare dei progetti futuri, ma non fa mistero sulla location: l’harem del meraviglioso palazzo Dar Al Basha a Marrakech, dimora del pascià El Glaoui.
Si è laureata alla Museum School of Fine Arts di Boston, arrivando alla fotografia dopo un percorso «pittorico»…
Sì, mi sono laureata nel 1996, poi ho preso un diploma di specializzazione e un master, terminando gli studi nel 2003 alla Boston Museum School e Tuft University. Da allora continuo a usare fotografia, installazione, pittura e film, in base all’idea del progetto. Ma, in realtà, mi sento pittrice anche quando fotografo, perché per ogni scatto occorre una preparazione che può richiedere fino a sei mesi. Applicare l’henné è quasi come usare i colori ad olio, mentre la sensazione tattile e l’intimità che si viene a creare con le donne con cui lavoro è più vicina alla performance.
Utilizza la pellicola o il digitale?
Fotografo con il banco ottico. Negli Stati Uniti uso anche il grande formato 20×24, mentre in viaggio ricorro al 9×12. Nelle stampe, fatte in camera oscura, il bordo nero della pellicola dove compaiono anche i numeri, è la prova del processo tradizionale. Non uso il digitale né il computer.
Il suo lavoro ruota intorno al concetto di identità femminile nel mondo arabo…
Il mio lavoro parte dalle mie esperienze personali perché credo che l’arte debba nascere dal cuore. In Converging Territories i soggetti ritratti appartengono alla mia famiglia, oppure sono amiche, per cui non solo condividiamo la stessa conoscenza, ma anche gli stessi spazi…
Proprio in «Converging Territories» le donne, in abiti tradizionali, sono fotografate all’interno di spazi spogli che rispecchiano un gran senso di solitudine. La location è un’antica dimora che appartiene alla sua famiglia…
La casa, bellissima, è a 12 km da Marrakech. La prima volta che ho mostrato negli Stati Uniti alcune fotografie degli interni, la gente è rimasta così affascinata da chiedermi se fosse in vendita. Da giovane, quando facevo qualcosa di sbagliato – sia io che alcune cugine – sono stata mandata in questa casa per «riflettere». Una volta fu quando i miei genitori scoprirono che ero stata in un locale pubblico, dove c’erano alcolici e musica. Mi avevano portata lì i miei fratelli per il mio quindicesimo compleanno ma, nonostante fossi in famiglia, io venni punita e loro no. Mi contrinsero a rimanere da sola per un mese, con l’unica presenza dei domestici. La casa era bella ma io ho avuto paura. Quando, anni dopo, ho iniziato a lavorare al progetto Converging Territories non avevo le idee chiare su come procedere. Decisi di trascorrere alcuni giorni da sola. Questa volta mi trovavo lì per scelta e ho sentito che dovevo scrivere il mio diario. Con dei grandi teli bianchi ho coperto i particolari delle decorazioni, i mosaici, i colori delle stanze, perché la bellezza del luogo non distraesse l’osservatore e ho iniziato a scrivere su quei tessuti che sono diventati il mio diario. Tutto il lavoro è una sorta di libro in cui i corpi delle donne sono pagine, paragrafi e capitoli.
Per la scrittura usa l’henné, impiegato dalle donne per tatuare mani e piedi in particolari occasioni come le nozze…
Come ho già detto, non c’è nessuna manipolazione digitale, il lavoro è realizzato in maniera tradizionale, dopo mesi di preparazione. La prima fase è la scrittura su metri e metri di tessuto, facendo attenzione perché l’henné asciugandosi si scrosta. Poi, bisogna scrivere sul corpo delle donne il giorno stesso in cui si scatta l’immagine. Le modelle stanno sedute ore e ore in posizioni scomode. Sono giorni di lavoro intenso che cominciano alle sei del mattino per finire alle tre del pomeriggio…
Il suo lavoro, in cui la scrittura è associata al corpo femminile, è in qualche modo ispirato a quello di Shirin Neshat, benché l’artista iraniana utilizzi il farsi?
Intanto ci tengo a precisare che l’arte calligrafica, in Marocco, non era un’arte vietata alle donne, ma fino a poco tempo fa non esistevano corsi di studi accademici per loro. Personalmente non l’ho mai studiata, è una disciplina molto complicata e occorrono anni di apprendimento. Nelle mie immagini considero la calligrafia come il disegno, e come si può vedere dalle prime opere a oggi la scrittura è diventata più elaborata e fitta. Ma è scrittura, non vera calligrafia. Quanto a Shirin Neshat, ho sempre ammirato il suo lavoro, anche per via della potenza dei soggetti. Bisogna però tenere presente che il Marocco e l’Iran sono due paesi musulmani completamente diversi. Naturalmente sono felice se c’è chi trova una connessione tra il mio lavoro e quello dell’artista iraniana, ma ci sono comunque delle divergenze, intanto perché non sono una militante, poi perché il mio lavoro, provenendo dalla pittura, è meno diretto.
In alcune opere cita capolavori del passato, l’odalisca di Ingres, le donne d’Algeri nei loro appartamenti di Delacroix, il mercato degli schiavi di Gerôme… In che modo ribalta la visione di questi pittori occidentali che hanno immaginato l’oriente, creando modelli stereotipati?
Molti orientalisti non sono mai stati in Medioriente e Nordafrica. Uno dei pochi viaggiatori è stato Delacroix, l’unico ad entrare in un harem. Gli altri hanno usato modelle occidentali che indossavano abiti che qualcuno portava dall’oriente, ricreando in studio scene finte in cui dare sfogo a un immaginario erotico. Nell’epoca vittoriana c’erano solo due possibilità: moglie e prostituta. L’immagine dell’harem che è diventata uno stereotipo non corrisponde certo alla realtà, almeno in Marocco. Con il mio lavoro intendo proprio ribaltare la rappresentazione delle donne arabe come oggetto sessuale. Tanto per cominciare, pur ispirandomi ai modelli dell’orientalismo, le mie donne guardano dritte negli occhi dell’osservatore.