di Maria Nadotti
Scultrice di sentimenti e stati d’animo, narratrice di affetti con perizia da ingegnere meccanico, pittrice e disegnatrice delle emozioni profonde che percorrono la superficie della pelle eludendo la durezza del cuore.
Il suo nome?
June Leaf.
Se gli appellativi potessero essere tradotti, nella nostra lingua si chiamerebbe ‘foglia di giugno’. E delle foglie di primavera questa artista – nata a Chicago nel 1929, oggi si divide tra New York City e l’Isola di Cape Breton, Nuova Scozia, insieme al marito, il fotografo Robert Frank – ha la tenacia fragile e vibrante. Poco nota fuori dagli Stati Uniti e dal Canada e ancora non del tutto riconosciuta nella sua schiva grandezza, Leaf ha dedicato la vita a tracciare con sguardo fermo e mano giocosa e austera una specie di verbale dell’inconscio, il proprio e l’altrui.
“Ho cominciato a lavorare nel 1948, a diciotto anni”, dice in un limpido autoritratto filmico realizzato nel 2007 presso la Mount Allison University (si veda questa lecture tenuta dall’artista nel 2007). “Da allora lavoro tutti i giorni e il bello sta proprio in questo. Se ho paura di qualcosa, se sono depressa, mi metto comunque al lavoro, mi esercito come i musicisti, con costanza e disciplina. Lavoro perché non voglio perdere né l’allenamento né l’abitudine al lavoro”.
Il talento di un artista non consiste forse proprio nella combinazione di esperienza e ossessione? Del resto, sostiene questa donna grande e solida, con un senso dello humour e una modestia impareggiabili, “non sono stata io a scegliere l’arte, è stata lei a scegliere me. Ho saputo così presto quel che volevo fare, che non ho imparato a fare altro e adesso mi dispiace, perché ho la sensazione di aver perso molto”.
I suoi materiali d’elezione sono lo stagno galvanizzato, i colori acrilici, la carta, la matita, il carboncino, ma anche una serie di objets trouvés o di loro parti e di congegni meccanici utili a far ‘muovere’ le sue figure: cinghie, rulli, martinetti, fili, altalene metalliche, rotelle, manovelle, spirali. Tutto danza nei teatrini scultorei o pittorici allestiti da Leaf. Come se, dopo aver dato vita ai suoi personaggi, non resistesse alla tentazione di animarli, farli scivolare e fluire come portati dall’acqua o da un grande fuoco.
Circolari e sinuosi come minuscoli anfiteatri, i suoi scenari accolgono i corpi da lei modellati mettendoli in risonanza con le loro ombre. Concavi e al contempo convessi, cavi, quasi in attesa di essere colmati e di colmarsi vicendevolmente, essi mimano i gesti dell’amore e della sottomissione, della paura e della forza, della libertà e del bisogno. La figura femminile, spesso piegata sulle ginocchia, è ‘inventrice’ di un corpo maschile che sembra accogliere con stupefazione il proprio ‘apparire’ grazie al gesto potente dell’altrui mano.
Che il fondale e le figure si sviluppino nello spazio tridimensionale attraverso l’assemblaggio di materiali diversi o che la loro volumetria sia compressa nella bidimensionalità di un foglio di carta o di una tela tormentati dal colore, il tropismo è sempre lo stesso: la creatura viene pensata, immaginata, voluta e infine creata da un soggetto che si rivela proprio attraverso l’atto creativo. Uno scambio alla pari, un duplice incantamento che l’osservatore è invitato a guardare, riflettendovisi come nelle trasparenze oscure di un lago.
Nelle sue opere tornano e ritornano forme e situazioni che l’artista non si stanca di indagare: la serpentina come illimitato spazio concluso; il bilico come figurazione ambigua di una triplice possibilità: il tuffo, la caduta, il volo; la corsa immobile; il vortice del movimento congelato.
Non a caso l’artista si serve di ‘basi’ o ‘strutture’ strappate alla loro funzione originaria e convertite in piedistalli nient’affatto muti o neutri. Come nei Canti di Maldoror di Lautréamont, trasformato in basamento, il tavolo della macchina da cucire sembra cedere a un’azione che trascende la sua disattivata promessa cinetica. E i rulli/pilastro muovono e insieme sigillano nel tempo sospeso del mito.
Malleabile e argenteo, resistente alla corrosione, lo stagno – materiale d’elezione dell’artista – è un metallo sonoro: piegato stride, riscaldato si spezza. Leaf lo plasma per ricavarne morbide figure che portano in sé tutta la vulnerabilità della carne, la sua silenziosa richiesta, la sua labile offerta. Incastonate in fondali materici e fuligginosi oppure in bilico su un ciglio come se stessero per precipitare, arrugginite da una misteriosa implicita usura, le sue figure si annunciano come piccoli teoremi privati per poi rivelare d’un tratto quello che davvero sono: fulgide rappresentazioni del mondo in cui viviamo e della nostra inspiegabile resa. Come non riconoscere, dietro l’“Uomo come scolatoio” del 2007, apparente ironica rappresentazione della virilità e delle sue aporie, il riferimento dolente alle tecniche persuasive messe in atto dagli americani a Abu Ghraib? O, dietro le sue leggiadre danze macabre, un insistente memento morilanciato nel vuoto di un presente che si dice senza Storia.
La mano dell’artista come flessibile e acuminato trapano/sonda, delicata e implacabile.
(Milano, 9 luglio 2015)