di Silvia Sperandio
VENEZIA – «All The World ‘s Futures» (Tutti i Futuri del Mondo): è questo il tema della 56ma Biennale Arte di Venezia, curata dal nigeriano Okwui Enwezor, che prende il via in uno scenario globale sempre più lacerato, caotico e incerto.
A 100 anni esatti dall’inizio della Prima guerra mondiale e a 70 dalla fine della Seconda, il mondo sembra precipitare nuovamente nel caos: ed ecco l’urgenza, la necessità, come spiega lo stesso Enwezor, di «chiamare a raccolta», in questa Esposizione internazionale, le forze immaginative e critiche di artisti e pensatori, per riflettere sull’attuale «stato delle cose». E intravedere, se possibile, nuovi orizzonti semantici.
La kermesse veneziana, insomma, «torna a osservare il rapporto tra l’arte e la realtà umana, sociale e politica», afferma il direttore della Biennale, Paolo Baratta. Sono 136 gli artisti coinvolti da Enwezor (dei quali 89 al debutto), provenienti da 53 Paesi. E di questi, cinque sono presenti per la prima volta: Grenada, Mauritius, Mongolia, Repubblica del Mozambico, Repubblica delle Seychelles.
Quali pratiche artistiche, dunque, in un’epoca di crescente barbarie e disumanizzazione?
In questa Biennale inquieta, globale e pluralistica, in cui gli artisti si misurano con la memoria (quella dei secoli e quella più recente), le nove grandi sculture bianche di fiberglass che troviamo all’ingresso dei Giardini hanno una valenza quasi simbolica: raffigurano eroi, re e potenti del passato che si ergono imponenti sui piedestalli, scrutando l’orizzonte. Ma la loro monumentalità è solo mera parvenza. Sono infatti figure mutilate, senza testa né braccia, o con il busto spezzato, simulacri del potere ridotti a involucri. L’opera «Coronation Park» (2015) è stata realizzata dagli artisti indiani Raqs Media Collective.
Sono dunque le “rovine” del passato, i simulacri da smantellare nella creazione di nuove possibilità? Il quesito sembra riecheggiare nell’antistante padiglione norvegese, delimitato da vetrate ampie e luminose. All’interno, in forte contrasto, vetri frantumati sono sul pavimento, mentre una decina di maxicornici quadrate e bianche sembrano scagliate con forza alla rinfusa da un misterioso gigante in preda a un raptus. Intanto, nella macroinstallazione di Camille Norment, «Rapture», una vibrazione sembra perforare l’intero spazio.
Voci, rumori, sibili, vibrazioni: i suoni del mondo sono in molti casi co-protagonisti dei lavori esposti, ed è questo un elemento che differenzia questa edizione dalla precedente, curata da Massimiliano Gioni e dedicata al Palazzo Enciclopedico, costellata di silenzi densi.
Perfino le parole tratte dal Capitale di Marx che vengono recitate non stop nell’Agorà del Padiglione centrale, cuore rosso pulsante dei Giardini dove si susseguono incessantemente eventi e performance, diventano traccia, ritmo, tappeto sonoro che trascende il contenuto semantico, forma tra le forme.
Voci: come quella di Pasolini che risuona nella grande sala del Padiglione centrale, nell’importante lavoro “Fabio Mauri e Pier paolo Pasolini Alle prove di Che cosa è il fascismo” (2005), di Fabio Mauri. Sullo stesso tema, un’altra installazione di Mauri, intitolata “Il Muro occidentale o del Pianto” (1993). Un’alta parete di valige, bagagli in transito costretti a espatriare portando con sé identità incenerite: nei viaggi senza ritorno nei lager nazisti dello scorso secolo, ma anche negli esodi di massa, nelle migrazioni che oggi stanno modificando la mappa geopolitica.
Sono invece rumori di guerra, mitragliatrici, suoni di uccelli impazziti e cavalli imbizzarriti quelli riprodotti nella videoinstallazione Now (2015), di Chantal Akerman, in HD, a canale multiplo , colore, 5 tracce, che si trova alle Corderie dell’Arsenale. Cinque schermi allineati trasmettono -non stop- le riprese di territori di Paesi inquieti, spopolati, come se lo sguardo li sorvolasse a volo radente, a bordo di un drone. Spazi deserti, che ci fanno precipitare nell’inferno di guerre scatenate da mani invisibili. Alla fine della sala, una minuscola oasi consolatoria e artificiale: un acquario in un ologramma, circondato da fiori finti e mini palloni da calcio, come tutti feticci di un’impossibile quiete.
Poco distante, in un’altro spazio dell’Arsenale riecheggiano rintocchi metallici: è l’opera The Bell, 2014-15, dell’artista iracheno Hiwa K, che ha raccolto materiale bellico dai terreni devastati dalla guerra, e poi, facendo fondere i metalli, ha realizzato una grande campana. L’installazione comprende due video, che ripercorrono tutte le fasi, dalla raccolta delle armi (fornite da 30 paesi del mondo) alla fusione dei metalli e alla creazione dell’opera. La campana è posta direttamente sul pavimento, sostenuta da una struttura di legno: tirando una fune legata al batacchio è possibile farla suonare, trasformando i simboli di distruzione in una creazione, in un suono di pace.
«This is not the season to be silent/ and we do it for our children», questa non è la stagione in cui stare in silenzio, recita la scritta a gessetto sul pavimento durante la performance site specific della Slovenia, all’Arsenale: quattro ragazze vestite di nero, sedute su travi di legno, ascoltano impassibili queste parole scandite da una giovane, in piedi. È il progetto dell’artista slovena Jasa, intitolato “Utter / the violent necessity for the embodied presence of hope”, che esorta a re-agire, a partecipare.
È una forma di partecipazione diversa quella richiesta da Adrian Piper, premiato sabato 9 maggio con il Leone d’Oro della Biennale: l’artista, con l’opera The Probable Trust Registry coinvolge il pubblico in prima persona, chiedendo l’adesione a una o più “Dichiarazioni di intenti”, con tanto di registrazione ufficiale. Una recita così: «Io sottoscritta, dichiaro che farò sempre ciò che dico che farò». Un progetto work in progress, dalle forti implicazioni etiche e “politiche”, che durerà fino a novembre.
Lungo il percorso all’Arsenale ci si imbatte anche nel “Cannone” di Pino Pascali, un’opera ormai storicizzata dell’artista poverista, che afferma, con la sua presenza immobile, una presa di posizione silenziosa.
Infine, è avvolta in un silenzio denso e poetico anche la maxi installazione nel padiglione del Giappone, The Key in the Hand, di Chiharu Shiota, un’opera da non perdere in questa Biennale. Due grandi barche di legno si intuiscono nello spazio centrale, dietro una fitta ragnatela di fili rossi tra loro annodati che pende dal soffitto. All’estremità di ogni filo sta attaccata una chiave, e il reticolato color rosso sangue è costellato di 180mila chiavi. «Ogni chiave evoca ricordi intimi, è un oggetto familiare che protegge persone e spazi importanti nelle nostre vite», spiega l’artista che nei mesi scorsi ha chiesto a migliaia di persone – via internet – di donare le loro chiavi inutilizzate per realizzare questo lavoro. «Spero che ciascuno tragga ispirazione dall’opera, che contiene l’accumulo dei ricordi di tutto il mondo, per ripensare il senso dell’essere in vita», afferma Chiharu Shiota, artista di Osaka classe 72.
Immagini, oggetti, suoni, e testi di questa esposizione, spiega il curatore della Biennale, Okwi Enwezor, sono “lo stretto indispensabile”, affinché questa mostra possa “prendere posizione” in questo momento di forte cambiamento a livello globale. Intanto, sulla manifestazione veglia simbolicamente “l’Angelus Novus” di Paul Klee: l’opera, riletta da Walter Benjamin che la acquistò nel 1921, rappresenta “un angelo, con gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese, l’angelo della storia… Ha il viso rivolto al passato, ma una tempesta che spira dal paradiso lo spinge irresistibilmente nel futuro». E mentre Benjamin rilegge l’arte con gli occhi della storia, alla Biennale di Venezia gli artisti osservano la storia con gli occhi dell’arte.