Nel 2010 a Venezia Kuzuyo Sejima sarà la prima “direttora” di una Biennale. Un traguardo che premia talento e ostinazione di tante colleghe. Come Zaha Hadid, leader di una tribù. Che disegna bellezza.
di Susanna Legrenzi
Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa, messi insieme, fanno lo studio Sanaa, antenne a Tokyo, fogli di cartone come attrezzi del mestiere, architetture peso piuma a spasso per il mondo, dal New Museum di New York al recentissimo Rolex Learning Center di Losanna, al microbico complesso Moriyama house, eccellente pugno di “scatole” bianche collegate dalla natura nel cuore di cemento della capitale giapponese. Sejima e Nishizawa fanno notizia da anni. Kazuyio, in solitaria, è balzata agli onori delle cronache da quando è stata nominata direttore della Biennale d’architettura di Venezia, inaugurazione 29 agosto 2010. La scelta premia non solo il talento indiscusso dell’ archistar giapponese, già Leone d’oro nel 2004, ma in qualche modo glorifica una nuova generazione di Maestri. Di lei un lider maximo come Toyo Ito ha detto: «È un architetto che usa la massima semplicità per collegare il materiale e l’astratto». Sejima, nel presentare la sua idea di Biennale, azzarda che: «Si potrebbe sostenere che l’architettura contemporanea sia un ripensamento e forse un alleggerimento dei confini”. Il tema è alto. E forse non è un caso che a sollevarlo sia una donna in grado di tornare a parlare, dopo tanto sfoggio di progettazione muscolare, della centralità dell’uomo rispetto all’architettura e dell’importanza delle relazioni tra persone. Certo, Sejima non è l’unico talento femminile nella galassia dell’architettura contemporanea. Ciò nonostante, in molti hanno sottolineato in rosa la sua nomina, designando come antesignana del gruppo l’anglo-irachena Zaha Hadid, primo Premio Prizker in gonna (pantalone), che nelle scorse settimane ha ufficialmente battezzato la sua più lunga e laboriosa creatura, il Maxxi di Roma, undici anni di cantiere, un budget di 150 milioni di euro, il primo museo italiano a “tenere” le prime pagine della stampa internazionale. DelI’eterno femminino Hadid conserva ciò che i media disegnano su di lei: kajal agli occhi, passione per 1’acqua, guardaroba destrutturato.
Mentre è molto più difficile stabilire o meno se esista una componente di genere nella sua idea di progettazione che spazia da stazioni per funicolari (leggi Hungerburgbahn Innsbruck) alla sede della Bmw di Lipsia. Sempre a Roma, è in fase di completamento un altro grande cantiere museale, il Macro nato dalla riconversione dell’ area dell’ex fabbrica della Birra Peroni a firma anche questa volta di una archistar, la francese OdiIe Decq, Legion d’onore e Cavaliere delle arti e delle lettere in Francia, fermissima nell’affermare che: «Committenti e architetti hanno spesso paura di osare, di assumersi dei rischi». «Mi sono sempre chiesta» ha dichiarato Decq «perché ci sono tante donne negli studi di architettura e così poche che fanno le loro cose. Mi sono posta molte domande. Innanzi tutto le donne hanno la possibilità di scegliere. Gli uomini non possono scegliere: non esistono se non attraverso la realizzazione professionale». Realizzazione che hanno senz’altro rincorso e conquistato due veterane della progettazione al femminile come le irlandesi Grafton, autrici dell’ultimo ampliamento dell’Università Bocconi di Milano, severa lezione di stile in una città che stenta a decollare nel verso giusto. Famose più nella cerchia ristretta degli addetti ai lavori, le Grafton da tempo sono specializzate in “campus” universitari che per i media della fama a 15 caratteri per titolo sono forse meno appetibili delle grandi concert hall.
Non è il caso di Maya Lin, l’architetta cinese con dimora “Iuessei” che con la sua opera prima ha raggiunto da subito fama planetaria. Ci riferiamo al Vietnam Veterans Memorial di Washington, più semplicemente The Wall, Il Muro, nel 2007 al decimo posto nella List of America’s Favorite Architecrures dell’ American Institute of Architects, marmo nero levigato con incisi i nomi di 58.202 veterani morti o scomparsi durante la guerra del Vietnam. Quando Lin prese l’incarico era una giovane studentessa di Yale. Ad Art in America, che le chiese se pensava che il Memorial avesse una sensibilità femminile, rispose: “In un mondo di monumenti fallici che vanno verso l’alto, certamente il mio Memorial ce l’ha”.
Il resto è storia. All’appello delle architette non può, infine, mancare Elisabeth Diller, ora alle prese con il restyling del Lincoln Center di New York, il più importante centro di cultura del mondo.
A pochi è sfuggito il fatto che, durante la conferenza inaugurale del museo Maxxi di Roma, Diller (che per estesa fa Diller&Scofidio + Renfro) abbia in qualche modo rivaleggiato con Hadid, presentando il suo rivoluzionario concept di museo, un’idea così in corsa nel futuro da lasciare almeno una piccola ruga sulla superficie levigata della grande opera della collega angloirachena. Un’Eva contro Eva che sembra ribadire come anche nell’universo di genere, sebbene siano signore, le “cortesie” tra ospiti non sempre sono scontate .