di Katia Ricci
L’11 luglio alle ore 19 a Vieste presso il Cine teatro Adriatico, Sala “Camillo Marchetti”, Pina Massarelli espone la mostra La Dea Madre che comprende opere in ceramica, ispirate alle immagini e ai simboli della Dea Madre così frequenti anche nel territorio della Daunia. Preziosi e raffinati ciondoli in argento e arazzi di stoffa su cui sono cucite tavolette in ceramica con i simboli della dea completano l’esposizione che contiene un’importante intuizione critica. Secondo l’autrice, infatti, le decorazioni geometriche della ceramica daunia derivano dai segni della dea madre che costellano i manufatti neolitici. Accompagna la mostra un catalogo illustrato dalle fotografie di Gianfranco Gesmundo con scritti critici di Floredana Arno, presidente del club unesco di Foggia, sponsor del catalogo, Maria Grazia Napolitano, Anna Potito, Katia Ricci, della stessa Pina Massarelli e testi poetici di Rosy Daniello e Marco Tonon.
Inevitabile è stato l’approdo alla ricerca e alla produzione di forme e simboli della Grande Madre per Pina Massarelli, femminista e ceramista, che continua a plasmare la propria vita secondo i propri desideri e necessità.
E non è un caso che oggi, in un momento di crisi e di trasformazione delle società umane si ritorni allo studio e alle immagini della Grande Madre, quasi per nutrirsi dell’energia femminile e per rifondare un nuovo senso del potere che non significa dominio, come è nella parola patriarcato, ma principio generatore, come è nella parola matriarcato. Arché in greco, infatti, significa tanto dominio, quanto principio.
«Un matriarcato – scrive Anna Potito – oggi non più sognato o ipotizzato, che le ricerche dell’archeologa Marija Gimbutas[1], estese tra Asia Africa Europa, hanno mostrato operante tra il 7000 e il 3500 a.C., presso popoli felici, in armonia tra uomini e donne, che praticavano l’agricoltura, non conoscevano la guerra, sceglievano pacificamente come guida una donna, considerata unanimamente autorevole; una vita serena interrotta dalle orde di cavalieri armati provenienti dall’est».
Molte artiste e femministe hanno utilizzato l’immagine della Grande Madre, ma oggi anche gli uomini la guardano con interesse, ne è prova la mostra La Grande Madre che si inaugurerà il 25 agosto a Palazzo reale a Milano a cura di Massimiliano Gioni. Insomma all’ideale borghese della donna, angelo del focolare, tutta dedita alla famiglia e ai figli, si sostituisce quello di “Colei che dà la vita” e “dà la forma”, come è detto nell’Inno a Iside del IV-III sec. a. C. e come è nel titolo del libro di Luciana Percovich.
Tutte le più antiche divinità femminili avevano epiteti che alludevano alla capacità di generare e di trasformare la vita e di darle forma: la Signora, la Madre, La Progenitrice, la Potente. Da lei discendevano tutte le cose e da tutte e tutti era riconosciuta l’esperienza comune di nascere da madre. Per questo tutte le statuette, a partire dal Paleolitico Superiore, come la Venere di Willendorf, in pietra o scolpite a bassorilievo sulla roccia, di piccole dimensioni, che accentuavano la rotondità del ventre e del seno, trasmettono un senso di armonia e di pace. Fanno pensare ad una forza benefica, comunicano quel senso di calma che certi paesaggi naturali sanno infondere, come le relazioni umane, quando si è sicuri che le contraddizioni, il conflitto, necessario e non evitabile, non sfocino mai nella distruttività e nella sopraffazione dell’uno sull’altra perché si riconosce la comune origine e la comune fine.
«Ci sono segni – scrive Maria Grazia Napolitano – che ci dicono che è in corso, a livello planetario, una sorta di gravidanza della Vita che mette l’Umanità alla ricerca di nuovo senso per divenire nuova specie».
Nutrimento, energia, trasformazione, salute del corpo i significati che Pina Massarelli ha voluto infondere nella sua iconografia della Grande Madre. «Ho iniziato questa ricerca – racconta – quindici anni fa: la riflessione sulla salute e sul corpo, sulla linea mediana primitiva e sul respiro primario mi hanno portata a studiare il culto della dea madre a rintracciare nei suoi simboli il senso di sovranità, che mi fa ritrovare il mio posto nel mondo… Scoprivo che tra la ricerca sulla salute e la cultura della Dea c’era una forte risonanza. Si parlava di forza vitale, di movimento, di quiete, forme di vita che coincidevano. Capii che non c’era divergenza di pensiero tra la linea mediana, legata alla salute, e la ricerca sull’ordine simbolico della madre…
Quelle miriadi di decorazioni che, a partire dai Dauni, avevo disegnato, per anni, sui vasi: decori geometrici che si sono rincorsi per millenni ed erano giunti nelle mie mani, fino ad allora decori indecifrabili. Dicevano che erano simboli apotropaici, scaramantici ma sentivo che non mi bastava ci doveva essere altro. Erano losanghe, triangoli, foglie, forme di uccelli, clessidre ecc.…
Marjia Gimbutas mi ha aperto una porta, una porta viva. Avevo disegnato movimento, energia, forza della natura. Cominciavo a sentire la magia vera, c’era un filo che collegava le cose.
E fu allora che separai i segni, li colorai, ogni segno aveva un significato energetico legato alla natura e divennero segni carichi di energia».
E così, dopo e insieme alla produzione di ceramiche legate al suo territorio di origine che corrisponde all’antica Daunia, riproponendo forme e decorazioni geometriche dei vasi, si è dedicata alla creazione di statuette della Dea Madre, le cui forme sono riproposte anche in ciondoli di metallo pregiato. Il vaso, che simboleggia l’utero o il ventre, i simboli energetici, l’acqua e la terra, rappresentati dal triangolo con la punta in basso, lo chevron, la linea a zig zag, oppure ondulata, la spirale che allude al vortice dell’acqua o all’energia tellurica, i colori, bianco e azzurro assolutamente predominanti, il nero e il rosso che suggeriscono il tempo ciclico della nascita e della morte, come la mezzaluna, segno del ritmo naturale e del risveglio primaverile dopo il sonno invernale. L’idoletto femminile di Passo di Corvo e la stele funeraria di Castelluccio, importanti siti archeologici risalenti al Neolitico di cui è ricca la provincia di Foggia, sono le forme più legate al territorio. Tutti i simboli manifestano un pensiero ecologico, di cui oggi si sente l’urgenza, un profondo legame con la natura e la necessità personale e comune di ritornare all’origine non per un senso di rimpianto di un’età dell’oro inesistente o non riproponibile, ma per ritrovare dentro di sé la matrice, l’arché materna, il divino femminile che è forza rigeneratrice. Tutto ciò che per Jung è «La magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita…»
[1] Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Vicenza 1997 – Le Dee viventi, Milano 2005