Linda Chiaromonte
«Molti sono convinti che l’omosessualità sia un prodotto occidentale, quasi fosse un contagio» «È importante dichiararsi e combattere. Nel nostro continente è ancora molto diffusa la pratica dello stupro curativo sulle donne lesbiche»
Dopo aver esposto i suoi lavori agli incontri per la fotografia di Arles e a Kassel per documenta 13, Zanele Muholi, attivista visuale, artista, filmaker e fotografa sudafricana è stata a Bologna, ospite del festival di cinema lesbico Some prefer cake, dove ha presentato il documentario Difficult love realizzato con Peter Goldsmid nel 2010 (premiato alla rassegna, da giuria e pubblico, come miglior documentario) e la personale Zanele Muholi_ Visual ARTivist. Scatti in cui ritrae in grande formato alcune donne lesbiche di colore, sudafricane e non solo. La mostra sarà visitabile fino al 20 ottobre nella sede dell’ex ospedale psichiatrico Roncati di Bologna. La Muholi, lesbica dichiarata, conduce da anni un lavoro di registrazione e archiviazione vivente sulla situazione della comunità lesbica gay trans e queer nei diversi paesi africani che, oltre ad avere un valore estetico ed artistico, è d’importanza sociale e politica.
Impegnata a dare visibilità ai corpi delle donne che hanno fatto coming out in un paese che ha una delle migliori legislazioni lgbtq, in cui sono riconosciute le unioni civili e le adozioni da parte di coppie omosessuali, ma dove nel codice penale manca l’aggravante della violenza agita contro gli omosessuali. In Sudafrica è ancora molto diffusa la pratica crudele di «stupro curativo» sulle donne lesbiche, soprattutto povere e nere, perpetrato a scopo terapeutico e di rieducazione all’eterosessualità. Molti sono ancora convinti che l’omosessualità non sia africana, ma un prodotto d’importazione occidentale, quasi come un contagio. Il progetto espositivo mostra alcune donne nella loro intimità, scatti teneri, dove nonostante si viva il pericolo del contagio dell’Aids e il rischio per il solo fatto di esporsi, la Muholi non fa trasparire il dolore e non rende i soggetti delle vittime, ma al contrario cattura sguardi fieri che sembrano interrogare e dialogare con il pubblico. La dichiarazione che la Muholi lancia quasi gridando attraverso gli scatti è di esistere, «è importante dichiararsi, resistere e combattere» dice, «anche se consapevoli dei rischi che corriamo. Andiamo avanti nella lotta per impedire di rinchiuderci nel silenzio». L’artista, nata a Durban nel ’72, ha studiato fotografia a Newtown e ha esposto per la prima volta a Johannesburg nel 2004, poi in molte gallerie in Europa e nel mondo. Vive e lavora a Città del Capo. Non sempre il punto di vista che propone attraverso le sue foto è ben accolto dal pubblico ostile all’omosessualità e al lesbismo. «Ci sono molti attacchi violenti contro le lesbiche soprattutto nelle township e le periferie» racconta, «si rischia la vita sia che ci si dichiari sia che si viva la propria condizione in silenzio. Alcuni, solo per aver posato nei miei scatti, potrebbero essere vittime. Nessuno è veramente al sicuro».
Zanele è una combattente, contro razzismo, classismo, disoccupazione, queerfobia, e il mancato accesso all’istruzione. «La libertà è artificiale» sostiene con tono deciso, «viviamo in società in cui ci sono ancora persone ricche e povere, donne che provano a ritagliarsi uno spazio per essere ascoltate sfidando il patriarcato. C’è ancora molto lavoro da fare per la libertà». Sul progetto fotografico, aggiunge, «alcune protagoniste delle foto sono già delle sopravvissute a stupri curativi, io non voglio esporre nessuno al pericolo. Ognuna ha una sua privata e personale esperienza. Negli scatti non presento le protagoniste con una didascalia in cui racconto il loro vissuto. Chiunque ha una vita prima e dopo gli scatti, voglio mostrare le persone come esseri umani senza far sapere quello che hanno attraversato a meno che qualcuna non voglia farlo espressamente e pubblicamente. Non è questo lo scopo del mio progetto. L’attivismo è usare l’arte come medium per dettare un’agenda». Il suo messaggio è indirizzato a chiunque voglia coglierlo come «gli insegnanti che trasmettono l’omofobia a scuola, i leader africani, americani, europei, i politici, tutti coloro che devono accettare la nostra esistenza. Non produco la mia arte per noi stesse, noi sappiamo bene chi siamo, abbiamo bisogno che la nostra voce arrivi a più gente possibile, a chi è d’accordo e a chi non lo è, a chi non capisce identità e vite differenti. Inclusi omofobi e lesbofobi». La questione non riguarda solo il Sudafrica «ovunque ci sono persone che fanno discorsi che istigano all’odio verso di noi», spiega, «è molto comune che le vittime sopravvissute siano state violentate, picchiate, o aggredite da gente conosciuta, come accade per i femminicidi, commessi dai partner e i membri della famiglia. A volte sono bande o ragazzi del vicinato, ma più spesso amici che provano una sorta di invidia nei confronti di lesbiche molto mascoline, che appaiono più uomini di loro». È una storia che le sta molto a cuore e che sente di dover raccontare. «Nel 2009» ricorda «è stata organizzata una mostra con i lavori di dieci artiste, voluta dal dipartimento di arte e cultura. La ministra Lulu Xingwana, della precedente amministrazione, disse che il mio lavoro era contro la costruzione della nazione, pornografico e immorale. Anche se è libera di avere le sue idee, le sue parole erano contro la costituzione, e dirle pubblicamente in un discorso di odio poteva innescare una catena di violenza. Può essere un pericolo per chi vive in aree rurali dove ci sono molte persone ostili, che rispettano tradizioni e convinzioni tribali».
Questo è solo uno degli episodi, ma il più duro è quello del recente furto di parte dell’archivio sui crimini d’odio che ha costruito negli ultimi cinque anni di lavoro e su cui aveva in mente di fare un’esposizione. «Ho perso gran parte del materiale» dice con rammarico «è una reazione a ciò su cui mi esprimo. È stato un brutto colpo, una forma di violenza per fermare la mia voce, ma rifiuto di restare in silenzio». In Sudafrica ci sono organizzazioni che difendono i diritti umani «non lavoro solo io in questa direzione», sottolinea, «le nostre voci sono lentamente ascoltate lo dimostra il diritto che permette alle coppie gay di adottare bambini. Questo fa già parte di un cambiamento. I governi sono formati da persone che abbiamo votato, si presume che ascoltino le nostre istanze, ma non sempre è così». In merito alle violenze contro le donne e in particolare contro le lesbiche la Muholi ci tiene a specificare «le lesbiche sono prima di tutto donne, non aliene, si tratta comunque di violenza contro le donne. Esiste una statistica sulle donne violentate, ma non in quanto lesbiche. Le violenze sono registrate e documentate, in centinaia sono violate e abusate dai loro partner, ma non ci sono dati specifici che trattino le violenze per questioni di lesbofobia. Quando una lesbica denuncia una violenza non importa se l’ha subita per il suo orientamento sessuale, ma in quanto donna». È una sfida che stanno affrontando come quella di capire, come spiega la Muholi, «dove arriva l’essere donna e quando subentra l’essere lesbica, spesso causa di molti crimini».
Il Sudafrica ha una storia molto travagliata in cui l’apartheid ha lasciato dei segni ancora tangibili «i neri sono sempre stati svantaggiati» ammette, «è molto complicato per me portare avanti delle battaglie in quanto donna, nera e lesbica, se vivessi altrove potrei essere più al sicuro. Una lesbica di colore che vive nelle periferie ha un diverso livello di comprensione, io ho la possibilità di dire queste cose più di una lesbica nera che vive ai margini della società. Dipende molto da dove vivi, quali risorse hai. Io sono una privilegiata, ma essere una donna nera che vive nelle township in cui sono cresciuta sarebbe completamente differente. Io ho un lavoro, uno stipendio, una fidanzata bianca, una copertura sanitaria, posso produrre film, viaggiare, la mia famiglia mi ha accettata. È diverso se qualcuno non può affrontare tutto questo ed è svantaggiata perché poco istruita. Essere nera, lesbica e sudafricana è complicato per molte». Ora la lotta più importante degli attivisti è quella contro la violenza di genere e i crimini di odio. «Non ho bisogno di far parte di un network o di un collettivo» dice con un piglio di orgoglio «ma non posso combattere la mia guerra da sola». Il prossimo lavoro dell’artista si concentrerà sui funerali delle donne lesbiche violate e uccise per ragioni di genere. Video a cui ha già iniziato a lavorare, visto che nel 2012 in Sudafrica si è registrata un aumento vertiginoso dei reati. Nonostante i pericoli la Muholi non ha intenzione di lasciare il suo paese che ama molto. Sarà in Umbria fino a novembre per una residenza di artista.