Stefania Gaudiosi è artista, curatrice e promotrice culturale. Particolarmente attenta ai temi della didattica dell’arte, cerca nelle forme culturali possibili vie di accesso alla comprensione del mondo e della nostra umanità. Artribune presenta il suo progetto “L’arte è un delfino”, un ciclo di video-interviste per riflettere sull’arte e la cultura del nostro tempo. Questo appuntamento vede protagonista la storica dell’arte Lea Vergine.
Quando avevo sedici anni sognavo di parlare con Borges.
Leggevo L’Aleph, nel tragitto in autobus da casa a scuola, e
avevo un solo desiderio: parlare con Borges (quando penso alla
tenerezza, al fondamento della compassione, penso ancora oggi a La casa di Asterione:
l’innocenza e il disarmo nella solitudine dell’anomalia e l’equivoco
che ne consegue). Il mio desiderio incontrò un ormeggio. Nel
sorprendermi il libro tra le mani – la lettura proseguiva sul muretto di
fronte all’entrata – la mia professoressa di filosofia mi disse che era
andata in Argentina a trovarlo, Borges. E aggiunse: “leggilo pure, ma non lo capirai adesso. Più avanti.”
Non capire un libro è come leggere un libro vuoto, pensai, è un
esercizio di immaginazione. O forse no, è come scriverlo. Ma il dato, su
cui avrei esercitato il metodo induttivo, fu: è andata a trovare Borges.
Si poteva fare. Io, certo, non avrei più potuto farlo ma, in generale,
si poteva cercare e incontrare qualcuno per il solo desiderio di
parlargli.
Ripenso a questo fatto tutte le volte che mi risolvo nel prendere il
telefono e chiamare qualcuno per un’intervista. E mi è servito anche
stavolta, più di ogni altra volta.
La telefonata con Lea Vergine è durata circa venti minuti. Mi ha sottoposta a una specie di esame e, solo alla fine, ha detto “va bene, venga a casa mia il tale giorno”. L’entusiasmo mi ha spinto a sbilanciarmi: –… perché sa, anch’io sono un po’ di Napoli.
– Lo so, lo sento. E quanti anni ha?
– Quaranta
– E che cosa ha fatto fino a ora?
– Tutto quanto era necessario a sostenere questa conversazione
L’ALTRA METÀ DELL’AVANGUARDIA
“Quando arriva, dopo molti mesi di rinvii, il momento in cui non si può più differire la stesura di un’introduzione che è cimento e certame, si fumano quaranta ‘serraglio’ al giorno, ci si chiude in casa sperando di ammalarsi, si pasteggia ad ansiolitici, si legge Gian Battista Vico, si raccolgono gli sparsi appunti, le larve, le scalette, messe giù con la speranza che – tanto – poi – al momento – basterà – cucirli – insieme – perché – ormai – tutto – è – nella – testa, si mendica l’attenzione di qualche figura amica e le si legge il risultato di tutto questo.”
È l’incipit de L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940, Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, Mazzotta editore, 1980. La metà suicidata, dirà Lea.
Un libro fondamentale per la storia dell’arte contemporanea, come tutti i
libri di Lea Vergine, spesso nati dalla ricerca sul campo che si
risolveva in mostre memorabili.
Sono più o meno nello stesso stato adesso, mentre scrivo. A parte le
‘serraglio’ (non fumo più da quando cominciai a cantare) e gli
ansiolitici (che sostituisco con meditazioni trascendentali e
giardinaggio), per il resto, uguale (e la figura amica è quasi sempre
Milù, la mia gatta siamese).
Procedo per azzardi e frammenti. Cerco segni e suggerimenti ovunque. Cerco giustificazioni:
La prima frase è sempre la più difficile (Wisława Szymborska).
M’inabisso. Più vorrei dire l’importanza di qualcosa, più mi inabisso.
Potrei scrivere qui le domande che non ho fatto. Per esempio:
“Nel testo L’altra metà dell’avanguardia (quella delle artiste donne) c’è una frase definitiva: C’era una volta una principessa che stava leggendo un libro quando il boia la toccò sulla spalla per farle capire che era arrivata l’ora e lei, alzandosi, mise un tagliacarte tra le pagine per non perdere il segno e chiuse il libro. (Anonima). L’ha scritta lei?”
Ma non c’è mai tempo di chiedere tutto. E non si deve mai chiedere
tutto. E poi c’è differenza tra chiedere e domandare. Si chiede per
avere, si domanda per sapere. L’ho sentito dire proprio a lei, a Lea
Vergine, in un’altra intervista, mentre preparavo la mia. E ho dunque
avuto cura, poi, di non chiedere ma domandare.
Un piccolissimo insetto verde, una specie di minuscolo grillo, cammina
sulla pagine del libro aperto accanto alla tastiera e percorre la frase:
L’arte è una questione di forma. Se ascoltiamo un canto gregoriano o
ambrosiano o un notturno di Chopin, siamo coscienti del fatto che siano
tutte musiche splendide, diverse tra loro, ma ugualmente intense.
Perché la loro forma è perfetta, al di là del tempo e dello spazio. Lo
stesso vale per l’arte.
L’insetto verde è di gran lunga più abile di me nel trovare spunti da dove cominciare.
L’ARTE NON È FACCENDA DI PERSONE PERBENE
È il titolo del bel libro, aperto accanto, edito da Rizzoli nel 2016, in cui Lea Vergine, in conversazione con Chiara Gatti,
racconta la sua storia personale, dall’infanzia napoletana, divisa tra
due famiglie, alla vita adulta e alla scelta del mestiere di critico (un
mestiere anticonformista pure oggi, figurarsi allora, negli anni ’70, e
per una donna), fino all’incontro con Enzo Mari e al suo approdo a Milano.
Su Enzo Mari pronuncerà una sola frase. E anche quando vorrei parlarne
io, durante la conversazione, con un’abilissima mossa mi gira la domanda
e mi ritrovo ancora sotto esame, del tutto impreparata, a dover cercare
le parole per dire quanto fondamentale sia stato per me suo marito. Ma
torniamo subito a Lea.
Chi sono le persone perbene? Sono coloro che hanno il senso comune, soprattutto il buonsenso. Che si chiedono poche cose e sempre quelle, dice Lea. Mentre, invece, l’arte
dilania. Mette allo scoperto tutti i traumi, consci e inconsci,
ravviverà tutto il dolore di sé. Ma il dolore non è sempre una cosa
nefasta, è anche una cosa che apre il cervello e fa capire, aggiunge.
Si torna sempre lì, alla questione centrale che è la dignità unita alla
tenerezza del non accontentarsi di una comprensione sommaria.
Perché, da qualunque punto lo si guardi, l’umano domanda solo tenerezza.
Proprio oggi che tutto, attorno, dice: non siamo stati degni, non ce lo
siamo meritato tutto questo. E proprio quando sembra stia tornando il
demone dell’odio a possederci.
L’umano domanda solo tenerezza, perché tutto è nel paradosso d’essere
allo stesso tempo tenace e fragile. E lo sguardo che odia è il più
fragile di tutti.
Questa lezione me la impartì Napoli a suo tempo, dalla sua ferocia
declinata nel canto, dal suo dolore senza mai un lamento, nel suo pianto
nascosto.
Non si può avere un rapporto semplice con Napoli. Ci si deve contraddire
di frequente, per esempio, per essere coerenti ed è necessario portare a
spasso uno sguardo molteplice, non singolare, una pluralità che
annienta le spinte contrarie. È per questo che ci si sente in una
sospensione magica, camminando, in una danza inspiegabile che, vista da
fuori, fa tremare i polsi per audacia sconsiderata.
Lea è nata a Napoli e di Napoli pure parleremo a lungo.
Il tentativo di speronare certezze, quelle della gente perbene, percorrerà la trama sottile delle sue parole, sebbene “L’arte non insegna niente sulla vita, esattamente come la vita non ci insegna niente sull’arte” come recita la frase di Morton Feldman, tratta da Pensieri Verticali, in esergo al libro.
DELL’INUTILITÀ DELL’ARTE
Ma che cos’è e a cosa serve l’arte, che uso possiamo farne, infine?
I termini devono essere sempre riscritti. Ed è un privilegio, tra gli
umani, riscriverli tutte le volte e spalancare l’orizzonte e la volta
celeste e le profondità d’abisso. Finché possiamo trattare
l’intrattabile, il mistero è salvo. E finché il mistero è salvo, è salva
la speranza, che qualcuno dirà illusione, qualcun altro sogno.
Metterci di nuovo, con furia sistematica, di fronte a questo essere qui,
dubitando di tutto il senso – ma elegantemente stretti in uno scialle
accanto al fuoco della coscienza, bevendo a piccoli sorsi un vino antico
di millenni, attardandosi ogni tanto a meditare sulle pagine di un
libro vuoto (ecco, di nuovo).
L’esercizio totale dell’arte è forse questo. Ti offre il privilegio di
non capire un libro che pure non puoi smettere di leggere. Un libro
indecifrabile o un libro vuoto, e tu continui a leggere.
Essere assolutamente centrati nel continuo differimento.
Andare all’appuntamento con il solo grande amore e fingere che non sia
questione di vita o di morte. Prendersi il lusso di non dire la sola
cosa che conta, distogliere lo sguardo dai soli occhi amati che si
dovrebbero, invece, guardare fissamente. Centrare il bersaglio mirando
altrove, sapendo bene che se vi fosse, solo per un attimo, l’intenzione
di far centro, il tiro non andrebbe a segno. È questo, forse, l’arte?
Lea Vergine ci dice che è il superfluo. Perché quello che ci serve per essere un po’ felici, o meno infelici, è il superfluo. Quanto questo superfluo possa essere vitale lo lascia intendere attraverso tutto il resto e il resto non sono parole.
È disperatamente inutile, dunque?
L’arte è sempre organizzata attorno al vuoto della cosa impossibile e reale, cito Žižek che cita Lacan.
Quello che per Rilke è l’ultimo velo che copre l’orrore: “la maggior
parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che
mai parola ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte,
misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce,
perdura”.
Ma noi vogliamo, se possiamo, violare lo spazio di indicibilità, tutte le volte che parliamo o scriviamo d’arte.
Con quanta disperazione si affina un canto? Quanta energia vitale c’è
nel colpo di scalpello, nella linea plurale di una frase poetica. E, a
pensarci, a cosa serve il canto, l’artificio di forma, il ricamo, il
passaggio virtuoso sulle corde del violino? E a cosa serve dipingere un
volto (penso al volto dell’Annunciata di Antonello, o agli occhi
socchiusi della Madonna del Parto di Piero della Francesca). A cosa
serve tutto questo? È un messaggio per gli umani o per gli alieni? È un
messaggio per un demone o per dio? È un messaggio per le mosche, per i
lombrichi, per i pesci? Non è un messaggio? È un segnale di fumo senza
fumo. È attardarsi in quello spazio sospeso delle cose senza significato
(ma che possono sperare in un senso), nel quale dobbiamo restare più a
lungo possibile – per sopravvivere – e da questo spazio dare adito a
ipotesi.
E Lea è così. Potresti stare lì per ore a guardarla fare l’orlo, di
pregiata fattura, al vuoto che la vita spalanca. E l’arte non è che
un’ombra. C’è sempre anche l’ombra da qualche parte, muta.
Che l’arte, poi, come sistema gravitazionale, possa essere anche un
regolatore sotterraneo dell’incedere politico (ed etico) è solo
un’ipotesi, ma non è cosa che possa dirsi senza rischio. Parlare di
etica politica del fare artistico, del rapporto dell’azione con il
desiderio che la abita e del giudizio che ne consegue, aprirebbe spazi
troppo vasti.
Ma si potrebbe, per cominciare, ripartire dalla rilettura di un testo fondante di Lea Vergine: Attraverso l’Arte. Pratica politica. Pagare il ’68, Arcana, 1976, per ribadire che nulla può essere trattato fuori dall’ecosistema sociale e politico.
E poi, ancora fondamentale rilettura (per tutti, non solo per chi si occupa di arte), Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio, Skira, 2000. C’è dentro un mondo incastonato nell’infinito-breve-spazio tra anima e corpo.
Ecco, non lo so. Forse finora ho scritto al vento, senza fare centro. Ma
non si elabora facilmente tutto questo. Volevo farvi incontrare questa
splendida donna ed eccola qui: tenera, implacabile, sublime. Dopotutto,
sono quelle che si manifestano le cose più importanti. Ed eccone
un’ultima, dal nostro incontro, per dirvi la grazia:
– “Lea, possiamo cominciare, dovrei solo attaccare questa spina a una presa.”
– “Ah, non lo chieda a me, non ne capisco niente. Quando mi parlano di spine, io penso alle rose