Una mostra al museo di Los Angeles, l’apertura di un centro al Brooklyn museum, un convegno sold out al MoMa di New York.
La critica e le istituzioni si accorgono delle artiste e di un lavoro che prosegue dagli anni 70. Ma i dubbi sull’operazione
Miriam Tola
Il 2007 potrebbe essere ricordato come l’anno della scoperta dell’arte femminista da parte delle maggiori istituzioni artistiche statunitensi. Improvvisamente, sembra che giganti del calibro del Museum of modern art di New York si siano svegliati da un lungo sonno e abbiano finalmente aperto le porte alle artiste coinvolte in uno dei più importanti movimenti del ventesimo (e ventunesimo) secolo.
Tre eventi potrebbero far pensare che sia così. Numero uno: a fine gennaio il MoMa, storicamente piuttosto ostile al femminismo, ospita una conferenza dal titolo promettente: The feminist future: theory and practice in the visual arts . La due giorni è animata da storiche dell’arte, curatrici e artiste tra cui Marina Abramovic, Coco Fusco e alcune Guerrilla Girls. Già a fine novembre 2006 il simposio registrava il tutto esaurito, segno inequivocabile di un vuoto, o meglio, una voragine culturale, scavata da trenta anni di scarso interesse. La spinta per riempirla è venuta, pare, dalla facoltosa Sarah Peter che ha messo sul piatto generose donazioni a sostegno dell’arte delle donne.
Evento numero due: il 4 marzo il Museum of contemporary art di Los Angeles (Moca) inaugura Wack! Art and the feminist revolution . Frutto del lavoro quasi decennale della curatrice Connie Butler, la mostra include le opere di 120 artiste realizzate tra fine anni Sessanta e anni Settanta, durante il boom del movimento delle donne americano. La lista di nomi comprende pioniere come Judy Chicago, Valie Export, Carolee Scheemann e Chantal Akerman e, ancora una volta, Marina Abramovic che ha sempre rifiutato l’etichetta di “artista femminista”: “Quando vedo mostre femministe – mi dispiace dirlo – penso sempre che le opere non sono buone. L’arte è buona o cattiva, non importa chi la fa. Le politiche femministe sono molto più interessanti”.
“Il movimento dell’arte femminista è simile all’arte gotica, è qualcosa che nominiamo guardando al passato ma non era un movimento omogeneo” sostiene la storica dell’arte Gail Levin. Così le quattordici sezioni tematiche di Wack! coprono orientamenti femministi in stridente contrasto, da “Goddess”, raccolta di lavori ispirati all’associazione tra femminile e materno, a “Gender performance” che ammicca alla decostruzione di sesso e genere teorizzata da Judith Butler. Wack! rimarrà a Los Angeles fino al 16 luglio. Poi partità per un tour che toccherà Washington e, a inizio 2008, il P.S.1 di Long Island City, New York.
L’evento numero tre è l’apertura del Center for feminist art presso il Brooklyn museum, ambizioso progetto reso possibile dal finanziamento di Elizabeth A. Sackler da cui prende il nome. Il Sackler Center è la casa di una delle opere chiave dell’arte femminista, “The Dinner Party”, creato nell’arco di quattro anni (1975/1979) da centinaia di volontarie supervisionate da Judy Chicago. “Fu creato – spiega – per mettere fine al ciclo di omissioni che hanno escluso le donne dalla storia”. Il cuore dell’opera, ricchissimo ensemble di ceramiche, ricami e arazzi, è un tavolo – un enorme triangolo equilatero – formato da trentanove posti con teli ricamati e piatti dalle forme vaginali, ognuno intitolato a figure femminili immensamente influenti, da Saffo a Virginia Woolf, passando per l’abolizionista afro-americana Sojourner Truth.
Come ha scritto la critica Phoebe Hoban su ArtNews , “per Chicago l’installazione permanente di “The Dinner Party” è una saga arrivata alla fine. E in qualche modo è anche un paradigma della riconsiderazione dell’importanza dell’arte femminista”. Nel 1979, quando l’opera fu messa in mostra per la prima volta a San Francisco, ebbe un impatto culturale considerevole. Poi, lentamente, mentre l’America degli anni Ottanta diventava teatro del backlash contro il femminismo, fu dimenticata fino a finire in soffitta.
Nelle stanze accanto, Maura Reilly e Linda Nochlin hanno curato l’allestimento di “Global feminisms”, panorama sui femminismi contemporanei che presenta ottanta artiste under 40 provenienti da cinquanta paesi. “Lo stesso termine “femminismo” si è espanso, trasformato e aperto a nuove espressioni. Non è un dogma ma una pratica flessibile e legata al contesto”, spiega Linda Nochlin che nel 1976 fece da apripista organizzando a Los Angeles la mostra Women artists: 1550-1950 .
Al Brooklyn museum, oltre ai nomi più quotati sul mercato (l’immancabile Pipilotti Rist, tanto per citarne uno), spiccano le silhouette di scene di tortura disegnate su carta da parati dall’iraniana Parastou Forouhar, e “Looking for a husband with a E.U. passport” della serba Tanja Ostojic, esplorazione in prima persona del mercato delle spose per corrispondenza. Il video della palestinese Emily Jacir, immagini rubate del percorso quotidiano attraverso un checkpoint, si lega a quello dell’israeliana Sigalit Landau che, sullo sfondo di una spiaggia, riprende un corpo nudo, ferito da un hula hoop fatto di filo spinato. L’artista lesbica americana Catherine Opie è ritratta mentre allatta suo figlio, mentre Michèle Magema della Repubblica democratica del Congo accosta simboli nazionali a immagini di gruppi di donne impegnate in danze tradizionali di fronte al dittatore Mobutu Sese Seko.
Nella selezione, dominata da fotografia e video, si nota l’assenza di performance e nuovi media. A parte rare eccezioni, la mostra raramente spiazza o sorprende. Sembra che molte artiste si accontentino di giocare con codici e temi immediatamente riconoscibili come femministi o femminili senza troppo affondare i denti nella contemporaneità. Nonostante buona parte delle opere siano state realizzate dopo il 2001, poche o nessuna offrono prospettive radicali sul mondo nell’era della guerra globale. In una mostra chiamata “Global feminisms”, mancano i nuovi femminismi impegnati nel cambiamento sociale. Sfugge quel senso di connessione, di scambio e networking implicato nel termine “global”.
Alcune sono convinte che il tris di eventi sia accaduto non per caso. Phoebe Hoban scrive: “La generazione di donne politicizzate degli anni Settanta ora sono 40/50enni e molte di loro, come Reilly, occupano posizioni di potere in grandi istituzioni culturali”. Maura Reilly conferma: “Finalmente ci stiamo infiltrando, per usare un termine militare, nelle istituzioni più importanti. Il fatto che qualcosa sia successo al MoMa è un colpo grosso. E il Sackler, nel suo genere, è il primo spazio al mondo dedicato al femminismo. Tutto ciò merita grande attenzione”. Vero. Tuttavia se si guarda alla presenza delle donne nel mondo (e nel mercato) dell’arte sembra quasi che il femminismo sia ancora di là da venire. Nel 1989 le Guerrilla Girls calcolarono che meno del 5% dei lavori in mostra al Metropolitan museum erano firmati da donne, ma l’85% dei nudi in mostra ritraevano corpi femminili. Queste cifre diventarono il tema di un celebre manifesto del gruppo, lanciato con lo slogan: “Le donne devono essere nude per entrare al Met?”. Sedici anni dopo il gruppo ha scoperto che le donne al Metropolitan sono diminuite a meno del 3%. Nel settembre 2006 Jerry Saltz notava sul Village Voice che solo il 23% dei 297 show personali in programma per l’autunno nelle gallerie di New York, l’epicentro del mercato, erano dedicati ad artiste.
Di fronte alle celebrazioni per la “rinascita” o la “riscoperta” del femminismo nell’arte, Coco Fusco, performer e docente di visual art alla Columbia University, è caustica: “Ci sono due mostre che si tengono nello stesso momento e due importanti donatrici che con il loro denaro hanno costretto i musei ad organizzare degli eventi. Credo, che in realtà ci sia poco sostegno per l’arte femminista. Pochi collezionisti la comprano. La mia idea è che le mostre e le conferenze di quest’anno hanno più a che fare con l’istituzionalizzazione dell’arte degli anni Settanta che con un cambiamento radicale. La discussione sull’arte e politiche femministe dovranno essere sviluppate altrove”. Nei prossimi mesi, e anni, vedremo se istituzioni come il Sackler Center sapranno e vorranno ritagliarsi un ruolo in questa discussione.