Un’intervista con la studiosa americana Griselda Pollock, a Roma per una conferenza che si terrà oggi presso la Casa internazionale delle donne. «Ogni artista lavora su un doppio asse di posizionamento, geopolitico e storico-famigliare. In tale intersezione si trova la specificità della sua opera»
Arianna Di Genova
Griselda Pollock è giunta a Roma dall’università di Leeds per tenere una conferenza presso la Casa internazionale delle donne. Autrice di testi ormai classici (tra cui, Old Mistresses, Framing Femminism: Art and the Women’s Movements 1970-1985, Vision and Difference) e di monografie su Modigliani, Berthe Morisot, Bracha Ettinger, Eva Hesse, incentrerà oggi la sua «lecture» sull’opera della pittrice berlinese Charlotte Salomon (morta ad Auschwitz a 26 anni, nel 1943), analizzandola in parallelo con Van Gogh. L’incontro con Pollock è stato organizzato da Paola Di Cori (tra i relatori, Patrizia Veroli, coordina Francesca Koch) nel contesto di un progetto di ricerca sulla vita quotidiana voluto dall’università della Sapienza e Clotilde Pontecorvo. «Lavoro sulla storia, il trauma, la trasformazione – spiega Griselda Pollock – Non voglio produrre giudizi ma resistere alla creazione di star e celebrities, anche in arte».
Lei ha esplorato i confini dello spazio pubblico e la dimensione del «privato». Alcune artiste contemporanee hanno spostato l’accento su quest’ultimo per raccontare il mondo. Cosa ne pensa?
Gli antropologi hanno sostenuto che la separazione fra cultura e natura è stata ridisegnata nelle simboliche divisioni uomo/donna. Nella Grecia antica oikos (casa) veniva distinta dalla polis e solo chi era fuori dalla casa, libero di costruirsi una vita e di sostenere la quotidianità attraverso il lavoro, poteva avere diritto a una cittadinanza. Nei periodi successivi, molto è cambiato e gli spazi privati della regalità e dell’aristocrazia – le corti – sono diventati i veri centri del potere. Le rivoluzioni moderne hanno rovesciato l’ancient régime delle monarchie assolute e reclamato una sfera pubblica per il potere borghese.
Si è così creata una nuova sfera pubblica, soggetta a una divisione costruita dalla borghesia, attraverso il concetto di gender. Le donne furono confinate negli spazi domestici mentre gli uomini vennero identificati con la politica, economica e, dunque, con il potere. Durante l’Impressionismo, ci fu ancora un cambiamento: l’intimità venne rivalutata dagli artisti, sia uomini che donne. Tuttavia, furono solo i primi a potersi muovere nella città e a sperimentare la libertà dello sguardo e la sessualità. Ho così teorizzato l’esperienza urbana ottocentesca in termini di uno scambio sessuale interclassista che escludeva le donne borghesi dai luoghi chiave della modernità, come i bordelli o i templi del divertimento. L’idea della donna pubblica era associata ad una trasgressione e ad una mancanza di rispettabilità. Poi, i processi di modernizzazione le hanno inserite negli spazi pubblici come lavoratrici e le pressioni dell’ideologia, attraverso altri tipi di visibilità della donna in pubblicità e nei media, hanno alterato le pratiche di genere e il rapporto con la città. Ma l’ideologia non è crollata. Quando le donne esplorano le condizioni che hanno determinato le loro vite e identità, finiscono per esaminare le divisioni dello spazio fra pubblico e privato. Continuano a studiare il significato di intimità che può declinarsi in sessualità, relazioni parentali, violenza domestica e, naturalmente, nel corpo. L’analisi femminista identifica le strutture e le ideologie di «gender» in cui – e contro cui – il pensiero di intellettuali e artiste pratica le sue teorie critiche.
Esiste un’arte post-femminista?
Come dice una splendida cartolina di Jackie Fleming: «Sarò post-femminista in un post-patriarcato». Il post-femminismo è una delusione creata dai media per licenziare il femminismo stesso e il suo lavoro critico, suggerendo che non c’è più bisogno di una lotta politica contro l’oppressione delle donne. La delusione si attua con la compiacenza di molte intellettuali occidentali che scambiano le loro piccole vittorie per un reale cambiamento delle strutture profonde del potere e dell’ineguaglianza. C’è ancora molto da fare. Nei nostri paesi, ora che i traffici sessuali sono una delle più orribili cicatrici dell’Europa occidentale nell’era postcomunista, nessuno deve essere compiacente. È un equivoco credere che l’obiettivo del pensiero femminista sia soltanto la liberazione sessuale. Molte artiste si comportano come ragazzacce e questo fenomeno viene definito post-femminismo. È infantile e non prende in considerazione le ragioni complesse delle teorie visuali e culturali femministe, così come il lavoro di molte artiste che riconoscono il corpo come un territorio, fortemente contestato, di potere e desiderio. Ciò che in arte viene etichettato come post-femminismo non ha capito la posta in gioco del pensiero critico di rappresentazione e sessualità.
Quale impatto ha avuto la globalizzazione sulla cultura femminista e le sue rappresentazioni artistiche?
Il femminismo è un fenomeno internazionale fin dal XIX secolo. I movimenti femministi sono apparsi nel mondo non grazie alla globalizzazione ma come risultato delle culture dei singoli paesi nel momento in cui si sono incontrate con la modernità e si sono liberate dai sistemi oppressivi. Abbiamo visto la nascita di vibranti comunità femministe nell’Europa dell’est dopo il 1989, ma anche in Giappone, Corea, Filippine e Thailandia. Nei paesi africani ci sono movimenti molto forti che seguono strade differenti da quelle euroamericane. Globalizzazione, però, può significare che il mondo euroamericano acquisisca una consapevolezza rispetto ai tanti femminismi che si possono produrre, anche nel campo artistico. Non amo l’idea di mostre collettive dove i curatori prendono esempi da diverse parti del mondo senza capirne il contesto. Così, ho proposto un modello basato su generazioni e geografie per poter scrivere una storia dell’arte post-coloniale. Ogni artista donna lavora su un doppio asse di posizionamento, quello geopolitico e quello storico-famigliare. In questa intersezione di tratti personali e culturali si trova la specificità della sua produzione.
Lei afferma che ci sono molte storie dell’arte…
L’idea delle storie dell’arte è anticonvenzionale. Suggerisce che esistono molte storie, qualcuna non scritta. Diversi sono i centri e i punti di vista. Non possiamo creare una «master narrative» ma dobbiamo renderci conto che siamo costantemente impegnati a ripensare il passato, a rivederlo mentre siamo modificati dal nostro presente, dalle nostre storie e dallo sviluppo di nuovi pensieri che queste storie producono.
La sua conferenza è incentrata su Charlotte Salomon, uccisa giovanissima dai nazisti.
Fra le artiste che ha studiato più a fondo c’è anche Eva Hesse, altra individualità con una storia tragica…
Già nel mio libro Old Mistresses: Women, Art and Ideology (1981), parlavo della sua produzione. Nel 2002 il mio centro di ricerca venne ospitato ad una conferenza dalla Tate, in concomitanza con la retrospettiva londinese dell’artista. A noi interessava affrontare la questione della sua esperienza storica, il trauma dell’olocausto e del post-olocausto. E superare la dicotomia fra la biografia di una personalità sofferente, morta tragicamente e un nuovo formalismo che esclude ogni riferimento al suo essere ebrea e donna. L’opera di Hesse, invece, cresce proprio sulla questione del sopravvivere al trauma, l’arte come mezzo per vivere e non morire.