il manifesto – 28 Febbraio 2007
Tradotti i saggi della critica americana raccolti nel volume titolato per Fazi l'”Originalità dell’avanguardia”. Una domanda torna insistente a informare la sua verve polemica: come raccontare altrimenti il Modernismo?
Riccardo Venturi
Prima scena, treno Cambridge(Massachusset)-New York, fine anni ’60. “Scusi, lei è Rosalind Krauss?” – domanda un lettore di Artforum, la rivista in cui la critica americana scriveva regolarmente. Per poi aggiungere: “mi aspettavo che avesse almeno quarant’anni”. C’era, in quelle parole, non tanto un complimento sulla maturità intellettuale dell’autrice, non ancora trentenne, quanto l’effetto perverso causato dal gergo del maestro di lei, Clement Greenberg, il critico americano più influente della seconda metà del XX secolo. Seconda scena, Harvard University, estate 1970: in un contesto in cui nessuno si occupava del XX secolo, Rosalind Krauss tiene una lezione sul cubismo, soffermandosi sulle case in collina a Horta de Ebro, dipinte da Picasso nel 1909. Più osserva la diapositiva più si rende conto che la sua interpretazione, tutta cocentrata sulla conquista della superficie del piano pittorico, non funziona. Era una lettura dettata dalla lezione di Greenberg, appunto, ma non le tornava più. Per la prima volta, la Krauss si andava accorgendo della quantità smisurata di spazio contenuta in quel paesaggio. Le sue parole le tornano indietro come talmente scollate dall’esperienza visiva che, rivolgendosi ai suoi studenti, confessa: “quanto ho detto negli ultimi venti minuti è falso”. E promette di riprendere la questione nella lezione successiva.
Durante il fine settimana consulta un suo stimato collega il quale, a vedersi presentare l’immagine cubista, sciorina quanto Greenberg aveva fissato nell’imperituro saggio sul collage, gettando Rosalind Krauss nello sconforto: “Fermati, aspetta un attimo. Greenberg l’ho letto anch’io. Ora voglio che tu guardi qui”. Non sappiamo cosa raccontò ai suoi studenti il lunedì successivo, di certo le ci vollero più di dieci anni per maturare un distacco dalla tradizione modernista e dal gruppo dei “Greenberbergs”, come li aveva soprannominati l’artista americano Donald Judd. Quel distacco trovò compimento nei lavori riuniti in un libro titolato L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti, ora tradotto per Fazi (a cura e con una prefazione di Elio Grazioli, pp. 358, con un corredo iconografico più ricco dell’edizione originale) che raccoglie i saggi di Rosalind Krauss pubblicati tra il 1973 e il 1983. Considerati i precedenti, non sorprenderà che l’autrice sembri infervorarsi tanto più quanto meglio intravede un bersaglio polemico, configurabile come l’ennesimo rituale di uccisione del padre, la cui voce non le sembra mai abbastanza tacitata. Del resto, il modello della Krauss è senza dubbio assimilabile a quello dell’agone, come dimostra, tra tanti esempi, il tono velenoso del saggio “Sinceramente sua”, una stroncatura della retrospettiva dedicata a Rodin dalla National Gallery of Art di Washington, nel 1981. Ma questa conflittualità finisce spesso per ritorcersi contro di lei, se è vero che ogni suo libro rilancia una nuova sfida e che queste sfide si risolvono in implicite polemiche con i risultati precedentemente acquisiti.
Studiosa rigorosa quanto felicemente asistematica, Rosalind Krauss sembra adottare un metodo differente per ogni argomento, periodo o opera che affronta: dal formalismo al post-strutturalismo; dalla lezione di Greenberg a quella di Barthes e di Foucault; dai prestiti presi da Saussure e Greimas a quelli mutuati da Benjamin, Derrida, Lacan, Bataille. Gli stessi francesi hanno reagito stupefatti al modo in cui gli studiosi americani si sono riappropriati o, meglio, hanno costruito, una loro “french theory”, e di certo nel campo della critica d’arte – come ha sostenuto David Carrier nel suo Rosalind Krauss and American Philosophical Art Criticism (Westoport, 2002) – nessuno meglio di Rosalind Krauss incarna la parabola statunitense. Ma è anche vero che la sua instancabile e ossessiva revisione metodologica le permette, in realtà, di opporre alla vulgata modernista applicata a un corpus scelto di opere delle letture ben altrimenti originali. O meglio, è la centralità inaggirabile delle opere a permetterlo: i modelli teorici sono funzionali alle opere, vengono “utilizzati” piuttosto che “tematizzati”. Infatti, la preoccupazione principale di Rosalind Krauss non è mai quella di accordarsi alla linguistica strutturale, o di praticare una semiotica del linguaggio visivo, o una critica agli orientamenti essenzialisti ed evoluzionisti. Non le interessa testare la tenuta degli impianti teorici o la coerenza dei sistemi, perché quel che per lei conta, invece, è restare fedele alle proprie intuizioni; e L’originalità dell’avanguardia è appunto un libro fatto delle intuizioni straordinarie di una critica militante. Osservare l’abilità di Rosalind Krauss nel trasformare un pretesto in occasione critica è un piacere che vale da solo la lettura, una lettura alla quale si rivela, insistita, la domanda che percorre tutta la sua attività di critica: come raccontare una storia dell’arte alternativa al Modernismo? O meglio, come raccontare il Modernismo altrimenti? È a questo scopo che Rosalind Krauss ricorre a nuove narrazioni: legge la scultura in Gonzalez attraverso le opere di Anthony Caro e di David Smith, guarda a Rodin attraverso Richard Serra, coglie l’aspetto maniacale di Sol Le Witt piuttosto che quello razionale, parte da Manet per arrivare a Dubuffet piuttosto che a Pollock. Quanto a Pollock, la sua analisi lo libera dalle letture iconologiche e getta un ponte verso i Piss paintings di Warhol, verso Eva Hesse, verso Cindy Sherman. O, ancora, identifica il Modernismo con la figura della griglia, abborda la fotografia e la questione relativa alla perdita di senso dell’originale, affronta la scultura degli anni ’60-’70 nel cui campo espanso, o nella cui nuova sintassi, si perdono i confini netti di ciascun medium.
Quella di Rosalind Krauss è, in definitiva, una ricerca interna alla disciplina della storia dell’arte che resiste ai visual studies e alle loro pretese di abbattere il confine tra le opere d’arte e il mondo sterminato delle immagini. Se la distinzione tra avanguardia e kitsch è venuta meno, i referenti della Krauss restano “alti”, gravitanti nel mondo delle istituzioni newyorchesi, mentre per quel che riguarda gli artisti italiani è noto che le sue osservazioni cadono spesso a sproposito. Nonostante risalga al 1985, l’Originalità dell’avanguardia resta attuale, anche se rivela esperienze artistiche irrigidite nelle foucaultiane “pratiche discorsive”, nella ricerca di una struttura logica del processo storico, e soprattutto se si ostina a dichiarare morto l’autore, un principio, all’epoca, intonato come un mantra.