Dal manifesto del 23 febbraio 2010
EFFETTO Fioroni:
mi spiace che questa grande artista non abbia saputo riconoscere che il “Valore Aggiunto” che attribuisce oggi alle artiste è stato conquistato proprio dal movimento femminista, non è capitato per caso Zina
di Elena Del Drago
Un grande libro curato da Germano Celant e uscito di recente per Skira è l’occasione per ripercorrere con l’artista la parabola della sua vita. Dalla lezione di Toti Scialoja ai quattro anni di soggiorno parigino, al ritorno a Roma. Nel 1969 un trasferimento cruciale nella campagna veneta insieme al suo compagno Goffredo Parise. Era la stagione in cui lui scriveva i Sillabari e lei raccoglieva nei boschi materiali per la sua arte, che è fatta di pittura, scultura, ceramica, parola, suggestioni derivate dal lavoro e alla vita di Giosetta Fioroni è dedicato un recente volume monografico curato da Germano Celant e edito da Skira (pp. 456, euro 140), che ripercorre come un album di famiglia ampi frammenti di storia dell’arte italiana del Novecento. Seguendo il percorso biografico dell’artista, dalla nascita fino al 2006, scorrono davanti al lettore, insieme ai cambiamenti di interessi, di stile e di linguaggio, quelli del mondo dell’arte frequentato da Giosetta Fioroni, prima a Roma, città allora strettamente legata alle vicende statunitensi, poi Parigi. Sfogliando, infatti, questo ampio catalogo ci si trova di fronte a un lavoro coerente e personalissimo – dalle prime tele neoespressioniste ai celebri argenti, dai teatrini alle ceramiche – che lascia intravedere anche lo sviluppo artistico e letterario del nostro paese: sebbene portatore di una cifra soggettiva preponderante, il lavoro di Giosetta Fioroni è a tratti attraversato dalla condivisione di amicizie profonde: con Toti Scialoja, per esempio, punto di riferimento indiscusso della giovinezza, con Tano Festa, con Franco Angeli, con Mario Schifano, vicini in un momento di grande energia convogliata nella Scuola di Piazza del Popolo, con Goffredo Parise compagno di vita, e poi con tanti scrittori, fotografi, intellettuali.
Il libro curato da Germano Celant mette in evidenza un elemento ricorrente in tutte le fasi del suo lavoro: la capacità di proiettare la sua cifra biografica in un contesto pubblico com’è quello determinato dal linguaggio dell’arte.
Questo è, in effetti, l’aspetto che Celant ha voluto privilegiare per la monografia, che dunque comincia con il 1932, la data della mia nascita, perché ha ritenuto che l’elemento biografico sia rintracciabile lungo tutto lo svolgimento del mio lavoro.
Lei si sente d’accordo con questa impostazione o la legge come una interpretazione critica?
Se penso all’inizio del mio lavoro, che mi sembra lontanissimo, mi accorgo che molto presto la mia pittura e la mia vita privata si sono fusi in un unico problema centrale, sin da quando, giovane sposa di ventidue anni, mi sono trasferita a Parigi. Poco dopo quel matrimonio è finito.
Seguiamo un ordine cronologico, e partiamo dunque dall’insegnamento di Toti Scialoja e dalla sua fascinazione per l’espressionismo astratto, per Gorky, in particolare, al quale lei ha anche dedicato un’opera…
Toti Scialoja per la mia scelta di divenire pittore è stato assolutamente cruciale: mia madre era marionettista e mio padre scultore e la loro influenza ha contato certamente tanto, ma è stato l’incontro con lui a svelare questo mio interesse. Scialoja era un ottimo pittore, un grande poeta, ma soprattutto aveva una capacità straordinaria di comunicare ai giovani le potenzialità emotive intrinseche al rapporto con l’arte. Questa emozione in divenire, che si trasformava in esperienza per alcuni, in riflessione per altri, Scialoja la sapeva raccontare benissimo. Era andato negli Stati Uniti molto presto, agli inizi degli anni ’50, e ne tornò con opuscoli, foto, notizie. Anche la grande impressione derivata dal lavoro di Gorky ce la seppe trasmettere con speciale efficacia. L’Accademia delle Belle Arti era allora un luogo di abbandono, e Scialoja, per poter tenere il suo corso, aveva accettato di chiamarlo Scuola Libera del Nudo. Diventammo amici e lo ritrovai anche a Parigi.
Quanto è stato importante il passaggio a Parigi per lo sviluppo del suo lavoro, e che ricordi ne ha?
Ho vissuto stabilmente a Parigi dal ’58 al ’62 e sebbene l’esperienza dell’arte fosse già in via di trasferimento, erano ancora attive presenze molto importanti come quella di Yves Klein. Del suo lavoro mi interessavano gli aspetti performativi più che i Monocromi. Nella galleria Iris Clert assistei alla celebre performance in cui Klein dipingeva le modelle nude con il suo blu contenuto in grandi secchi per poi spingerle con violenza sulle tele bianche: per quel periodo era un gesto rivoluzionario e in più rappresentava un perfetto mix di arte e pittura che mi ha sempre interessato.
Torniamo alle sue diverse tecniche pittoriche: agli inizi degli anni ’60 lei ha cominciato la serie degli argenti. L’argento raffredda, ferma il segno, ma nella sua interpretazione non ha affatto quella valenza industriale, quella vocazione seriale, che invece era tipica della Pop art…
No, all’inizio non aveva affatto questa accezione. Nel ’62, a Parigi, Scialoja e Burri montarono una mia mostra in cui l’argento funzionava da fondale magmatico da cui uscivano segni riconoscibili – il cuore, il telefono, una mano, il segno di un braccio, numeri, come a formare una mappa riconoscibile, che proprio in quel periodo si trasformò, diradandosi. In seguito cominciai a proiettare alcune immagini sulla tela bianca – volti, paesaggi, bambini – e quindi a dipingerli, e l’effetto cambiò drasticamente: quello che era stato una sorta di amalgama, legato all’espressionismo astratto, divenne una pittura vicina a quella metafisica, oppure a certe esperienze di Morandi, piuttosto che alla Pop art, alla quale fu assimilata.
La sua pittura si allontana non solo dalla Pop Art, ma soprattutto da quel certo cinismo che caratterizza, per esempio, il lavoro di Warhol. È d’accordo?
Sì, ricordo che Warhol si vantava di non avere toccato mai i colori. La sua era serigrafia, trattava solo passaggi di colore. Io invece proiettavo elementi qualsiasi sulla tela poi però dipingevo in modo amanuense.
L’elemento della manualità divenne centrale quando lei cominciò a costruire i suoi teatrini e le sue ceramiche, ma era già presente nella sua pittura. Tra l’altro il suo lavoro si segnalava anche anche per uno speciale rapporto con i media…
Il cinema mi ha sempre interessato, ma l’ho sempre inteso solo come un input. Ho cercato di rubare sguardi, volti, elementi per raccontare una emozione, in modo molto distante dagli artisti Pop, che lo hanno reso un simbolo riconoscibile, universale. Il mio atteggiamento, invece, risentiva ancora di una visione romantica.
Romantica? È un termine che suona singolare, oggi.
Si, il mio è stato un percorso sentimentale, legato all’espressività e al fare romantici, e a distanza di tanti anni tutto ciò è diventato persino più evidente. Mi piacerebbe essere stata in grado di rivoluzionare i dati ricevuti dalla tradizione, ma la mia reazione è stata più apparente che reale. Molti della mia generazione si rifacevano più alla pittura metafisica che a quella astratta, venuta in seguito, e io stessa feci un piccolo tentativo di avvicinare il mio lavoro alla Neo Figurazione, che ho sempre aborrito. Mi sembra che il catalogo di Celant chiarisca bene questo punto.
Vogliamo parlare anche della sua riflessione sul corpo femminile?
Non sono stata mai una femminista convinta, ma mi ha sempre interessato capire il peso della femminilità nella società in cui vivo, e come i sentimenti femminili agiscano in senso simbolico su un contesto che cambia così rapidamente.
E il movimento femminista si è reso conto del suo lavoro?
No, non credo. Personalmente ho sentito le rivendicazioni femministe come riduttive di un ruolo che si pretendeva alieno da quello maschile. Quando le donne hanno cominciato a condividere la competitività del mondo del lavoro c’è stato qualcosa di quel decennio che è rimasto sordo. Se guardiamo al mondo dell’arte, per esempio, tutto è completamente cambiato. Una volta partecipai a una mostra collettiva alla Galleria di Cardazzo a Milano: venne un collezionista al quale il mercante propose alcuni lavori. Il collezionista li selezionò e lasciò da parte i miei perché dalla firma capì che erano di una donna. A spiegazione di questa scelta sostenne di non poter investire su una artista, perché presumibilmente si sarebbe sposata, avrebbe fatto dei figli e avrebbe smesso di dipingere. Adesso invece, essere una artista donna costituisce un valore aggiunto.
Lei è d’accordo con la considerazione di Celant che vede il ’69 come un anno spartiacque nel suo lavoro?
Sì, perché in quel momento, ancora una volta, la mia vita personale prese il sopravvento: lasciai Roma con il mio compagno, Goffredo Parise, per andare in Veneto, in campagna. Lì lui scrisse i suoi Sillabari e io cominciai a ricercare materiali. Mi piaceva moltissimo, raccoglievo tutto: penne, piume, sassi, terra, spaghi…
Qual è il suo rapporto con Louise Bourgeois: glielo chiedo perché in entrambi i vostri lavori c’è un rapporto fortissimo con la biografia…
Ho conosciuto tardi Louise Bourgeois, ma il suo lavoro mi interessa moltissimo, credo che abbia compiuto una ricerca eccezionale: anche lei racconta la sua vita intrecciando memorie e scene di infanzia.
Questo libro l’avrà portata, tra l’altro, a ripercorrere la sua esperienza dell’arte fino ai nostri giorni. Qual è secondo lei il momento in cui ha raggiunto la sua massima felicità espressiva?
Per me l’anno più emozionante è stato senz’altro il ’70, quello vissuto con Parise nella campagna veneta. Come ho scritto nel catalogo, il suo racconto titolato Ozio è autobiografico ed è ambientato lì. Vi si legge di un uomo lunatico, che trascorre il tempo senza fare niente, ma proprio in quel non fare niente il lettore coglie il sentimento bellissimo di una vita fantastica. Anche per me quel periodo è stato molto ricco di suggestioni, e per molto tempo ho continuato a realizzare lavori ispirati a quella casa veneta e a quei luoghi.