12 Maggio 2019
Corriere della Sera

Arte – Sostantivo femminile e (anche) femminista

di Gianluigi Colin


Parigi, primo marzo, sfilata di Dior: tutto è pronto, ma nel silenzio dell’attesa, una minuta signora di 88 anni, inaspettatamente, sale in passerella. Accompagnata da due modelle (che indossano una t-shirt con la scritta Sisterhood is Global, citazione del libro della scrittrice e attivista Robin Morgan), recita una poesia. Gli invitati si guardano negli occhi, interrogandosi su chi sia quella donna con la faccia da bambina. Eppure, tutti sono avvolti proprio dalla sua Scrittura vivente (un’opera del 1976) qui rivisitata in un Alfabeto poetico monumentale molto contemporaneo: tanti corpi di donna, nudi e a grandezza naturale, come lettere dell’alfabeto, appunto. Quell’artista è Tomaso Binga, nome che nasconde l’identità di Bianca Pucciarelli, autrice di grande valore, pittrice e poetessa. Anche per questo Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior, l’ha voluta come protagonista della sfilata, come se quella donna, costretta a mimetizzarsi da uomo per farsi strada nel mondo dell’arte, rappresentasse il simbolo più alto per celebrare una ribellione femminista (e insieme affermazione della femminilità). Una scelta non scontata. E coraggiosa.

Ora, questi due alfabeti sono visibili in una importante ed emozionante mostra negli spazi dei Frigoriferi Milanesi. E anche qui la figura di Tomaso Binga diventa simbolo di una generazione di donne artiste che hanno combattuto e tuttora lottano per un riconoscimento della propria identità. Il titolo della mostra è elegantemente provocatorio e intrigante, come l’intera esposizione: Il soggetto imprevisto. 1978. Arte e femminismo in Italia, a cura di Raffaella Perna e Marco Scotini. Quasi a indicare che la storia dell’arte degli anni Settanta in Italia si è sviluppata attraverso una narrazione ricca di dimenticanze, assenze e censure. E che proprio questa mostra sembra voler riscattare.

Con rigore e impegno militante i curatori si muovono con l’intento di mettere in luce i rapporti tra arti visive e i movimenti femministi in Italia. La mostra è l’evoluzione, molto arricchita con voci dimenticate, dell’esposizione Altra misura del 2016, curata dalla stessa Raffaella Perna alla galleria Frittelli di Firenze e ora realizzata con la collaborazione del Mart di Trento e Rovereto (che ha concesso molti materiali della propria collezione) e, non a caso, realizzata con il contributo di Dior.

Con oltre 350 opere per 105 artiste italiane e internazionali, con sole due intrusioni maschili (Alberto Grifi e Giulio Paolini) la mostra si snoda attraverso libri, manifesti, dipinti, sculture, installazioni, filmati, molti dei quali inediti o rimasti finora negli archivi come un intenso e complesso viaggio dentro l’anima, le urgenze e le parole d’ordine dell’impegno femminista degli anni Settanta, in un contesto di crescente consapevolezza e contrasto politico. Erano gli anni in cui veniva approvata la legge sull’aborto, Nilde Jotti diventava la prima donna presidente della Camera, la studentessa Giorgiana Masi veniva uccisa durante una manifestazione; erano i giorni in cui si leggeva Dalla parte delle bambine e in piazza si scandiva «L’utero è mio e lo gestisco io».

Per una coincidenza felice con la Biennale (dove le artiste sono in maggioranza) aprono in Italia e nel mondo molte mostre di donne o dedicate a donne: lotte civili, sguardi originali sulla società, interpretazioni mai convenzionali. Eccole. A partire da una rassegna milanese sul femminismo Raffaella Perna e Marco Scotini hanno messo in luce (per la prima volta in modo così completo) una parte nascosta della ricerca sperimentale degli anni Settanta: quella del corpo e del suo linguaggio, mostrando le istanze e il ruolo importante nell’arte italiana delle donne che operavano nel dialogo attivo con il movimento femminista. Una centralità sostanzialmente rimossa, forse volutamente negata.

La mostra si apre con un passaggio simbolico: la proiezione del film-documentario Anna, un’opera del 1972 di Alberto Grifi in cui si narra di una ragazza che vive a Roma nel disagio, nel malessere esistenziale, tra droga e tentativi di suicidio nel nome di una rivolta perenne. Un documento crudo, realizzato con strumenti rudimentali: fu portato anche alla Biennale di Venezia e divenne presto un film di culto. Subito dopo i curatori presentano il ritratto di un personaggio chiave: Carla Lonzi. È sua la frase che suggerisce il titolo alla mostra: «Riconosciamo in noi stesse la capacità di fare di questo attimo una modificazione totale della vita. Chi non è nella dialettica servo-padrone diventa cosciente e introduce nel mondo il Soggetto Imprevisto». Carla Lonzi (1931-1982) era una scrittrice e critica d’arte molto stimata. Teorica dell’autocoscienza, ha fondato nei primi anni Settanta Rivolta Femminile, una casa editrice con titoli (tutti presenti in una teca) che non lasciano dubbi sui contenuti e sulle teorie di quegli anni: La donna clitoridea e la donna vaginale; Taci, anzi parla. Diario di una femminista.

Carla Lonzi era un’intellettuale, colta, autorevole. Prima della fase femminista aveva scritto Autoritratto, una sequenza di interviste a una decina di artisti, da Fontana a Kounellis, sino a quasi tutti gli esponenti dell’Arte Povera, montate come un dialogo ininterrotto. Lonzi era poi diventata una radicale dura e pura. Non lasciava spazio a concessioni, tantomeno nell’arte. Giudicava il sistema autoritario e sessista. Da questo suo radicalismo, l’amica e compagna di lotta Carla Accardi (l’unica presente in Autoritratto e qui simbolicamente vicina con una serie di opere su materiali plastici) rompe la lunga amicizia. Una linea di demarcazione culturale, politica, umana. Mettere come incipit della mostra i piccoli libri verdi di Rivolta Femminile, e il registratore con cui Carla Lonzi realizzava le interviste agli artisti, assume dunque il valore di una dichiarazione sul suo ruolo determinante di ideologa e critica.

La costruzione di Il soggetto imprevisto si snoda attraverso aree tematiche con artiste guida: la scrittura gestuale di Ketty La Rocca con le fotografie del 1971 di mani su cui sono create delle scritture (un ripetuto «you») che rappresenta un’anticipazione di quello che farà molti anni dopo Shirin Neshat. Una sezione è dedicata a Mirella Bentivoglio: fu lei, da artista, poetessa e curatrice, a organizzare nel 1978 una storica mostra alla Biennale di Venezia, invitando decine di artiste sul tema Materializzazione del linguaggio. Qui ne troviamo almeno 60, e non a caso l’immagine simbolo della mostra, un manifesto d’amore, è proprio della Bentivoglio: una bocca socchiusa con sovrapposte, in forma di poesia visiva, le lettere «ti AM O». Qui troviamo le scritture pentagrammate di Betty Danon o le lettere di Amelia Etlinger, o ancora i preziosi libri di Maria Lai, ora finalmente riscoperta. E c’è chi, come Milli Gandini, rivendica il salario per il lavoro domestico creando nel proprio privato un’azione artistica militante: prende le pentole con le quali abitualmente cucina e le chiude con filo spinato colorato. Il titolo dell’opera? La mamma è uscita.

Ironia, provocazione, ribellione, gioia, dolore, desiderio, paura, eros: tutto si condensa nelle opere in mostra: attraverso le parole illeggibili di Irma Blank, come rappresentazione di una identità negata, o con i collage irriverenti di Lucia Marcucci, i video di Gina Pane e Marina Abramovic, o l’esibizione del parto di Lisetta Carmi. Ma anche con i corpi nudi di Paola Mattioli o gli enigmatici «presagi» di Carol Rama. Sono anche esposti i malinconici autoritratti di Francesca Woodman e le foto di Paola Agosti che ritraggono il «triangolo ribelle» (le mani unite a forma di sesso femminile). O ancora, i tanti autoritratti di Marcella Campagnano, per un racconto sull’invenzione dei modelli femminili: moglie, infermiera, mamma, manager, casalinga, puttana… Corpi ostentati, corpi negati, corpi desiderosi d’amore, corpi vogliosi di sesso, corpi imprigionati nella mente, corpi pudici e corpi pornografici…

Certo, benché in quest’ultima Biennale di Venezia siano state invitate più artiste donne che maschi, il cammino per la parità (nell’arte e nella vita) appare ancora lungo. Tra l’altro, balza all’occhio che il nome del curatore, sfidando l’alfabeto, nel catalogo è prima di quello della curatrice. Così, resta impressa una delle immagini che chiudono la mostra. È quella di Valie Export: ritrae l’artista durante una performance, pantaloni in pelle tagliati al pube, il sesso esposto, il mitra in mano. Tu donna, «matrice del paradiso», seduci, accogli, perdoni e continui la tua battaglia, «diventi grande come la terra – ha scritto Alda Merini – e innalzi il tuo canto d’amore».


(Corriere della Sera, 12 maggio 2019)

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