di Giuseppe Frangi
Nella storia di Corrado Levi, il caso gioca sempre un ruolo importante. Lo gioca con molta grazia e leggerezza. Nell’immediato dopoguerra, mentre era impegnato a recuperare gli anni perduti facendo l’università a tappe forzate, si era recato in visita a Ottone Rosai nel suo studio di Fiesole. Gli aveva comperato un piccolo quadro, dietro il quale Rosai aveva scritto una dedica: «A Corrado Levi con l’augurio di trovarlo pittore». Levi era iscritto ad Architettura, dove si sarebbe laureato con Carlo Mollino, ma evidentemente guardava alla sua vita come a un campo aperto e libero: del resto «Libero» era il cognome della madre che lui aveva adottato nel 1943-44 per scampare alle leggi razziali.
Levi è un «inclassificabile» in ogni senso. Lo testimoniano i biglietti da visita che con un tocco di ironia ha voluto squadernare in una doppia pagina alla fine di questo libro che colma una mancanza e finalmente ripercorre la sua storia creativa: Corrado Levi. Corpi (a cura di Beppe Finessi, con un testo di Luca Massimo Barbero, Electa, pp. 208, euro 32,00). Si dichiara architetto, e insieme «guanto giallo di savate», o boxe francese. Ma in un altro biglietto si definisce «fan di Boetti di Albini di Mollino di Klee di Schifano di Escher di Kraus di Zanichelli di Rama». Chi lo ha avuto come affascinante professore alla facoltà milanese di Architettura, si trovava davanti un maestro che non ha mai smesso di considerarsi allievo dei nomi di cui sopra, in particolare di Mollino, come più tardi di Franco Albini, «fratelli di nevrosi» per la comune ricerca della perfezione progettuale che li caratterizzava. Credeva nella virtù di «imparare l’uno dall’altro». «L’ho sempre fatto anche con gli allievi del Politecnico. Imparare guardandosi. Se non è un atto politico questo…», racconta nell’intervista a Maria Villa che correda il volume.
In una facoltà in ebollizione per le contestazioni studentesche, vara un progetto editoriale «Dalle cantine», con la sua costola «Dalle cantine frocie». Un numero speciale è dedicato a un artista-chiave per Corrado Levi, Pontormo, a cui lo lega una passione viscerale. Per Levi è un artista-chiave in ogni senso: addirittura assicura di aver ottenuto la cattedra al Politecnico dopo che Paolo Portoghesi lo aveva sorpreso, durante un’occupazione, a leggere in piedi il Diario del grande manierista. Un disegno di Pontormo, Il giocator sgambettante, è poi origine di una serie di lavori realizzati a inizi anni ottanta, «con occhi spalancati, mano attenta e cuore sognante», come sottolinea Finessi. Levi, dopo aver replicato su carta undici volte la figura pontormesca, ne ha coperto il sesso, spavaldamente ostentato, con pennellate di colori sempre diversi. Un tocco con cui sembra divertirsi a stare al gioco di «Madame Pontormo» (questo era il titolo del numero speciale della fanzine universitaria).
La politica entra sempre in gioco nel percorso di Levi. Ma entra attraverso pertugi imprevisti, mai con un andamento obbligante. La politica per lui è esperienza, e il corpo è il territorio immancabile di questa esperienza. Come scrive Finessi il corpo resta sempre «un territorio capace di rappresentare al meglio il suo pensiero, contenerlo, amplificarlo, permettendogli di mostrare la sua ricerca, tra ascolto, sperimentazione e humour». Quando sceglie di aderire al FUORI, lo fa anche «per attingere alle linfe colorate dei collettivi individuali, delle notti trascorse tra Artaud, Genet, l’illeggibile groviglio di Eliogabalo» (Massimo Barbero). Quando nel 2015 intercetta la ferita sociale dei migranti, decide di indossare uno sull’altro i vestiti abbandonati da chi era approdato sulla costa pugliese. Politica, anche in questo caso, è «lasciarsi attraversare dalle cose», prendersi addosso la realtà. La foto scattata per fissare quella performance, firmata da Finessi, rimanda in modo dolce ma perentorio ai corpi e alle vite assenti ma reali degli «arrivati».
Una decina di anni prima, avendo deciso di ristrutturare un vecchio riad a Marrakech per ricavarne un atelier, aveva lavorato al fianco dei muratori. Alla fine si era fatto dare le loro tute da lavoro, che ha poi montato in un assemblaggio circolare: praticamente ne è nato un rosone di impronta operaia. Il suo abito da cantiere è invece un’opera a parte, in forma di composizione danzante, come a comunicare la dimensione di un’inedita scioltezza. «Se non fossi così ingenuo nel manifestare le cose forse non avrei queste qualità», dice di se stesso, quasi per spiegare la semplicità ineffabile di tante sue soluzioni.
È una «levità», come la definisce Massimo Barbero, che caratterizza anche la sua esperienza pittorica, vera sorpresa di questo libro. Levi agisce in punta di pennello, con un segno che spesso è quasi stenografico. Si riconosce a monte il tocco del De Pisis più struggente e fuggitivo, o l’orizzonte errante di Licini. Levi si muove su quelle tracce ma è debitore a Mario Schifano, di cui da giovane è stato assistente, del raggiungimento di un’autocoscienza pittorica. Era accaduto a inizi anni ottanta, durante un’estate ad Ansedonia; un giorno Levi d’istinto aveva iniziato a lavorare su grandi tele distendendole nel prato. Vedendolo dall’alto Schifano aveva proclamato un «habemus pinctor» (sic), che per Levi è risuonato come un imprimatur importantissimo. Lui poi ricorda come Schifano lo richiamasse spesso all’idea della relatività: «L’ho interpretata come possibilità di non considerare l’opera un assoluto, ma come entità viva nello spazio e nel tempo, un furore».
Nelle pagine del libro scorrono le grandi tele di quegli anni; sembrano tutte pervase da fremiti fuggenti; la pittura avanza per accenni, per scosse leggere, dense di desiderio e di dolcezza. Lo sguardo di Levi, anche in pittura, è sempre uno sguardo amico, uno sguardo trepidante, soprattutto laddove l’intenzione è più scopertamente e teneramente erotica. È un «voler bene» al mondo che si esplicita nelle forme più inattese, con la capacità di abbracciare più pensieri. «Levi inizia tra le arti un percorso costruito attraverso acuti sincretismi», scrive Massimo Barbero. «L’arte, la visione, la società, il respirare quieto e profondo del rapace e del palombaro senza risparmiarsi campi di interesse ed escursioni».
Tra queste escursioni ce ne sono di fondamentali, come quella che lo ha portato a una relazione speciale con Carol Rama (documentata nelle meravigliose pagine ripubblicate in È andata così, Electa, 2009). Alla Biennale del 1993, su invito di Achille Bonito Oliva, Levi aveva allestito una sala personale a lei dedicata, stipando i lavori per nuclei omogenei ai quattro angoli; ogni angolo era allestito con criteri diversi, o affastellando le opere o disponendole ordinate. A vegliare la sala, appeso a un filo che scendeva dal soffitto, c’era un omaggio di Carol al suo curatore, Il chiodo di Corrado, un giubbino di pelle nera, imbottito sulla schiena di camere d’aria. Era un allestimento che restituiva tutta la pregnanza fisica di quelle opere-corpo, «buchi di me» come le aveva definite la stessa Carol Rama.
Di sorpresa in sorpresa il libro porta a riscoprire quell’intervento realizzato per «Rapido fine», una rassegna organizzata nel 1986 da un gruppo di artisti negli spazi della Zenith, fabbrica abbandonata a Ferrara. Levi si era fatto vivo portando un presepe e allestendolo con grande cura in un angolo dell’edificio. Il senso di quel gesto era semplicemente di donare un oggetto pieno di sentimento a quel luogo in rovina. C’è sempre una quota di stupore nelle azioni artistiche di Corrado Levi. Come scrive Barbero, l’arte per lui è ogni volta «un inciampo libero».
(il manifesto, 8 maggio 2022)