di Katia Ricci
Ho visitato l’Esposizione ai Giardini e all’Arsenale con Donatella Franchi e un’artista messicana, Patricia Meza, sua allieva nel master Duoda. È stata per questo una visita ancora più interessante perché abbiamo potuto scambiarci opinioni. Ero piena di aspettative per quella che veniva indicata come la Biennale delle donne. Desiderosa di un giusto, anche se tardivo, riconoscimento alla creatività femminile e nello stesso tempo timorosa che fosse un tributo alla moda del momento che parla di post-umano, gender fluid, superamento del binarismo eccetera… Sicuramente in comune con tutte queste problematiche le opere di artiste e artisti mostravano un netto superamento dell’antropo(andro)centrismo. Ma andiamo con ordine, in primis i numeri: per la prima volta nei 127 anni della Biennale tra i duecento artiste e artisti provenienti da 58 nazioni, c’è una netta maggioranza di donne rispetto ai colleghi uomini, il che racconta di un protagonismo femminile che finalmente è emerso anche agli occhi della critica e del pubblico e di qui non si torna indietro. I numeri dicono pure qualcosa, anche se si dice comunemente che non è la quantità quella che conta. E allora entriamo nel merito della qualità e dei problemi affrontati. L’enorme elefante verde scuro, Elefant, che ci accoglie nel Padiglione centrale dei Giardini, realizzato in poliestere da Katharina Fritsch mi appare come una figura imponente e nello stesso tempo rassicurante, come la matriarca che è alla base dell’organizzazione familiare della specie. La scultura e il titolo della mostra, Il latte dei sogni, tratto dal libro di favole di Leonora Carrington, introducono in un mondo magico e nello stesso tempo reale e quotidiano, come se la vita stessa offrisse infinite possibilità di eventi meravigliosi e potesse essere plasmata e reinventata continuamente se si abbandonano schemi prefissati e luoghi comuni. In una sala sotterranea del Padiglione centrale, detta La culla della strega, esprimono un rapporto magico e stupefacente con l’universo le opere di artiste delle avanguardie storiche, tra cui Eileen Agar, Leonora Carrington, Claude Cahun, Leonor Fini, Carol Rama, Dorothea Tanning, Remedios Varo, Benedetta, Rosa Rosà, Meret Oppenheim, Valentine de Saint-Point. Il riferimento frequente all’inconscio, il superamento delle contrapposizioni proprie della cultura patriarcale, essere umano natura, corpo mente, femminile maschile, reale immaginario prefigurano la nascita della “donna nuova”, autonoma e indipendente dall’uomo. Breve il passo per il raggiungimento di una completa libertà. Un’opera di Varo mostra un’artista, un ibrido di donna e civetta, che nel suo fare artistico prende direttamente luce e colori dagli astri, da forze soprannaturali. La culla della strega si presenta, dunque, come un laboratorio alchemico di pensiero, consapevolezza, pratiche artistiche a cui faranno riferimento artiste e artisti negli anni a venire e fino ai nostri giorni. La sezione Corpo orbita con opere di artiste come Tomaso Binga, Mirella Bentivoglio, Djuna Barnes, Sister Gertrude Morgan, Minnie Evans, solo per citarne alcune, ricercano un proprio linguaggio nella Poesia visiva o utilizzando scritture automatiche che sono anche una pratica corporea per esprimere un linguaggio inconscio del tutto personale. Affascinanti l’installazione e le opere di Cecilia Vicuña, Leon d’oro alla carriera insieme a Katharina Fritsch. L’installazione, NAUfraga, dedicata alla laguna di Venezia, che occupa tutta la stanza con materiali di recupero, corde, reti, detriti raccolti a Venezia, denuncia lo sfruttamento della Terra che sta facendo naufragare lentamente Venezia. Il dipinto dedicato alla madre, Bendígame mamita, esalta il modo creativo e forte con cui la madre ha reagito al violento colpo di stato cileno: il suo sguardo attraversa il foro di una chitarra e non a caso è diventato uno dei simboli della Biennale per comunicare il superamento dell’odio e delle difficoltà. Metamorfosi dei corpi in lavori come quelli dell’artista rumena Andra Ursuƫa, che, usando calchi di parti del suo stesso corpo, evoca la fragilità e la precarietà della forma umana. Molte artiste e artisti affrontano il tema del rapporto con la Terra e la natura, sia nei video di alcuni che negli stupendi paesaggi ricamati da Britta Marakatt-Labba presente anche all’Arsenale. Uno dei riferimenti della curatrice è sicuramente Ursula K. Le Guin, secondo la quale la civiltà sarebbe nata non dall’invenzione delle armi, ma dai recipienti e oggetti utili alla vita quotidiana. E così in una sezione dell’Arsenale si ammirano oggetti di Sophie Taeuber-Arp, le leggerissime sculture in filo di ferro ispirate a una tecnica di intreccio di ceste di Ruth Asawa, i gusci fragili di Mária Bartuszová, i modelli in cartapesta degli organi sessuali femminili di Aletta Jacobs che nei Paesi Bassi già a fine Ottocento si batteva per l’abolizione della prostituzione. Ai genitali femminili sono evidentemente ispirate le conchiglie dipinte dalla francese Bridget Tichenor, stabilitasi poi in Messico. Complessa la scultura in ceramica di Tecla Tofano, nata a Napoli, ma vissuta in Venezuela, dove si è battuta per l’uguaglianza tra uomini e donne in una società fortemente maschilista. La sua ceramica affronta la questione della maternità in un modo problematico senza retorica.
Culture non occidentali e saperi indigeni sono al centro di molte opere. Il Padiglione americano coperto per l’occasione da paglia che lo trasforma in una capanna africana contiene sculture in bronzo di figure di donne nere di Simone Leigh, che apre la mostra all’Arsenale con un monumentale busto di bronzo di una donna nera, la cui gonna ricorda una casa di argilla. All’antica scultura indiana si ispira Mrinalini Mukherjee che con la fibra di canapa dà vita a monumentali sculture, in cui l’astrazione si fonde con elementi naturali per dar vita ad antiche divinità. Uno dei padiglioni più affascinanti, oltre a quello molto bello del Belgio sui bambini che giocano nelle strade del Messico, in Africa e in Cina, e che mi ha sorpreso maggiormente è quello della Polonia che presenta un grandioso progetto dell’artista rom Małgorzata Mirga-Tas, Re-enchanting the World, ispirato a Palazzo Schifanoia. L’epopea del popolo Rom raccontata in tra fasce copre tutte le pareti con la storia della migrazione, i segni zodiacali, e nella fascia bassa lavori e vita quotidiana in cui sono protagoniste le donne. Sono dodici pannelli di tessuti dai colori brillanti, una festa per gli occhi. Arazzi, ricami, opere realizzate con materiali vari anche di uso quotidiano sono numerosi in tutta l’esposizione in cui non mancano sorprese come le opere della cantante cilena Violeta Parra che realizza quadri e ricami che riprendono le sue canzoni e rappresentano in scene corali donne, uomini e animali ed eventi storici. Inevitabile la sezione dedicata al cyborg intitolata La seduzione del cyborg nella parte finale delle Corderie all’Arsenale, con opere di artiste che fin dall’inizio del Novecento hanno immaginato nuove mescolanze e combinazioni tra macchine, esseri umani e tecnologia. Tra queste artiste del Bauhaus come Marianne Brandt, le futuriste, Aleksandra Ėkster, Giannina Censi e Regina. Chiude una grande installazione di Barbara Kruger con slogan, poesie e frasi. Non è, dunque, solo la quantità che fa di questa Biennale la Biennale delle donne, ma anche e soprattutto la qualità: le novità, le pratiche artigianali e artistiche, un tempo appannaggio delle donne, i contenuti che riguardano la rappresentazione dei corpi, le relazioni con tutti gli esseri viventi, la fine dell’antropocentrismo e i legami con la Terra per un «re-incantesimo del mondo», come scrive Silvia Federici.
(www.libreriadelledonne.it, 6 giugno 2022)