di Elena Tebano
«Ho sempre pensato che si dovesse provocare, attaccare la religione e i generali. Finché non ho capito: niente è sconvolgente come la gioia», Niki de Saint Phalle (1930-2002)
Prima la mostra al Ps1 di New York, l’anno scorso, poi la grande scultura intitolata «Gwendolyn» voluta dalla direttrice artistica Cecilia Alemani alla Biennale di Venezia, adesso la personale con circa cento opere alla Kunsthaus Zürich. Il mondo sta riscoprendo Niki de Saint Phalle. L’Italia ha un motivo in più per farlo: il suo capolavoro, il Giardino dei Tarocchi, è a Capalbio.
Nata da una famiglia di aristocratici e banchieri francesi nel 1930, Niki de Saint Phalle ha passato i suoi primi tre anni di vita in Francia, nel castello dei nonni, a cui i genitori l’avevano lasciata ancora in fasce per trasferirsi negli Stati Uniti con il figlio maggiore. Ma è cresciuta a New York, dove, dopo essere stata notata da un agente a 17 anni, iniziò a posare per Life, Vogue Francia, Elle. Fu in quel periodo che la femminista americana Gloria Steinem, come ha raccontato alla curatrice della mostra newyorchese, la vide camminare per la Cinquantasettesima Strada «senza borsa e vestita da cowboy». Un’immagine folgorante: «È la prima donna libera che abbia mai visto nella vita reale. Voglio essere come lei» pensò Steinem. «I ruoli degli uomini sembrano dare loro molta più libertà e io ero decisa a far sì che la libertà fosse mia» avrebbe scritto anni dopo De Saint Phalle a un’amica.
I ruoli considerati da donna all’epoca non facevano per lei. E, anche dopo essersi sposata a 18 anni con lo scrittore altoborghese Harry Mathews e aver avuto una figlia, si rifiutò ostinatamente di sottomettersi ai doveri domestici. Poi a 22 anni finì in manicomio. Era in Francia, dove lei e il marito vivevano una vita bohémienne. De Saint Phalle aveva iniziato, per vendetta, una relazione con il marito dell’amante di Mathews, un uomo molto più grande di lei che le parlava continuamente di suicidio. «Iniziò a fantasticare di andare alla deriva su un galleggiante di gomma con una “grossa spilla da balia in mano”. Iniziò anche ad accumulare rasoi, coltelli e forbici sotto il materasso. Una notte, l’amante di Mathews venne a casa loro e De Saint Phalle la aggredì. Poi ingoiò un flacone di sonniferi, ma, ricorda, era in uno stato così maniacale che non ebbero alcun effetto. Poco dopo, Mathews scoprì l’arsenale di oggetti taglienti della Saint Phalle e la portò in una clinica psichiatrica di Nizza» racconta Ariel Levy sul New Yorker.
Fu sottoposta a dieci cicli di elettroshock e fu lì che, senza doversi più occupare dei bambini o del marito, iniziò a comporre collage con foglie e rami che trovava nel giardino del manicomio. Una settimana dopo essere stata dimessa, racconta ancora il New Yorker, ricevette una lettera dal padre. «Sono sicuro che ti ricordi di quando avevi undici anni e ho cercato di fare di te la mia amante» le scriveva. Nel libro Mon Secret Niki De Saint Phalle ha descritto l’episodio in un altro modo: «Mio padre, questo banchiere, questo aristocratico, mi mise il suo sesso in bocca» ha scritto, spiegando che la sua violenza «aveva spezzato la mia fiducia nel genere umano». Non era l’unico a essere violento, in famiglia. La madre picchiava sua sorella minore Elizabeth «con il lato pungente di una spazzola per capelli», costringeva il fratello Richard per ore a finire tutto quello che aveva nel piatto e una volta obbligò una governante a servire a Elizabeth il suo stesso vomito. Tutti e due sono morti suicidi.
Niki de Saint Phalle è sopravvissuta grazie all’arte. «Probabilmente sarei stata in prigione, o ancora in un ospedale psichiatrico, se l’arte non mi avesse aiutato a tirare fuori tutti i miei sentimenti profondamente aggressivi nei confronti dei miei genitori e della società» ha raccontato. «Avevo una grande rabbia dentro di me».
Agli inizi degli anni ’60 quella rabbia ha dato vita ai suoi «quadri da tiro». Performance art quando ancora la performance art non aveva nome. «Sparava con il fucile contro i suoi stessi dipinti davanti al pubblico. In precedenza aveva preparato le tele con oggetti e sacchetti di ogni tipo, che riempiva di vernice, uova o spaghetti e ricopriva di gesso. Quando questi assemblaggi venivano colpiti, il loro contenuto scorreva sulla tela e la colorava. La Saint-Phalle voleva far “sanguinare” i suoi quadri in questo modo e, naturalmente, si confrontava indirettamente con il dominio degli uomini che sostenevano che le donne non potevano produrre grande arte. Quanto senso dell’umorismo ci sia in questo gruppo di opere è dimostrato da un “quadro da tiro” poco appariscente dei primi anni Sessanta: una superficie di gesso rigonfia e in gran parte intatta è inserita in un’ampia cornice a ghirigori. “Vecchio maestro (non sparato)” è il titolo. Ovviamente, in questo caso l’artista si è astenuta dal colpo di grazia» spiega la Süddeutsche Zeitung.
Le opere per cui oggi è più nota sono le sue Nanas (un termine colloquiale per «ragazze» in francese) figure femminili gigantesche dalle forme rotondeggianti. «Una delle sue performance più spettacolari fu un’installazione che oggi è considerata una pietra miliare nella pratica artistica femminista: nel 1966, Saint Phalle, con il supporto di Jean Tinguely e Per Olof Ultvedt, creò un’enorme scultura colorata e calpestabile di una donna incinta al Moderna Museet di Stoccolma, in cui i visitatori potevano entrare attraverso un portale nella vulva. “Hon” – “Lei” era sdraiata supina sul pavimento, con le ginocchia sollevate e i talloni alzati. All’interno della gigantessa, l’artista aveva installato un bar per il latte e fatto proiettare un film di Greta Garbo. L’installazione, che era tempio, parco giochi e rifugio, riempiva talmente tanto spazio da dover essere distrutta dopo la fine della mostra» spiega ancora la Süddeutsche. La storica dell’arte e curatrice svizzera Cathérine Hug ha scritto che questa «Nana originale», è «ancora una delle cose più radicali» mai realizzate «in termini di nudità femminile» visto che «una vagina aperta, se destinata a scopi diversi dal rapporto sessuale o dal parto è una provocazione smisurata».
Il suo capolavoro è il Giardino dei Tarocchi di Capalbio. De Saint Phalle ha iniziato a concepirlo dopo aver visto il Park Güell di Antoni Gaudí a Barcellona, nel 1955, ed esserne rimasta folgorata. Voleva che fosse «una sorta di paese della gioia» dove «avere un nuovo tipo di vita, semplicemente libera». Lo ha costruito a Capalbio su suggerimento di Marella Agnelli, sua amica dai tempi in cui entrambe avevano lavorato come modelle. Marella le fece conoscere i suoi fratelli, Nicola e Carlo Caracciolo, che possedevano la tenuta perfetta: tra gli ulivi vicino al mare e sopra delle rovine etrusche. De Saint Phalle si presentò «tutta vestita con una vestaglia colorata, sormontata da uno dei suoi magnifici cappelli a tesa larga, con una maquette di creta fatta a mano del Giardino dei Tarocchi» ha ricordato Agnelli nel libro di memorie, Ho coltivato il mio giardino. «Alla fine del loro incontro, i fratelli Caracciolo le avevano regalato un pezzo consistente della loro proprietà» ricostruisce Ariel Levy. Su quel terreno, nel 1979, De Saint Phalle iniziò a costruire le 22 figure dei Tarocchi.
Non avrebbe smesso più fino alla morte, avvenuta nel 2002 per un enfisema polmonare causato dalle esalazioni dei materiali che usava per realizzare le sue opere. Levy racconta che la costruzione del Giardino, per cui De Saint Phalle ha ingaggiato manodopera locale e ha vissuto all’interno dell’Imperatrice-Sfinge, una delle figure più grandi, ha avuto un effetto trasformativo su tutti coloro che vi hanno partecipato. Sugli uomini, nei confronti dei quali l’artista aveva assunto un atteggiamento materno, cucinando e servendogli da mangiare sul cantiere, ogni giorno. «Questo gesto familiare nei confronti di tutti questi belli e giovanissimi machos italiani, che prima erano solo ragazzi di campagna, contadini» ha scritto De Saint Phalle all’ex marito Matthews, «mi ha aiutato ad assumere un potere psicologico. Era facile per loro prendere ordini da La Mama, lo hanno fatto per tutta la vita, purché rispettassi la sottilissima facciata della loro mascolinità». «Molte cose cambiarono, perché ora non si viveva più a Capalbio ma nel mondo. Avevi la mente rivolta al mondo» ha raccontato Marco Iacotonio, uno di quei ragazzi che avrebbe lavorato per oltre vent’anni al Giardino, e poi ne è diventato il custode.
Il lavoro con Niki de Saint Phalle ebbe un effetto liberatorio soprattutto sulle donne. «Queste donne, che provenivano da ambienti molto semplici, improvvisamente, solo lavorando per lei e facendo parte di questo progetto, hanno iniziato a camminare in modo diverso, indossando abiti diversi», ha detto Marella Caracciolo Chia ad Ariel Levy. «C’era una ragazza che è arrivata con la sua famiglia, perché aveva bisogno di un lavoro e tutti si aspettavano che si sarebbe sposata presto: ricordo di averla vista iniziare a indossare jeans e truccarsi e tagliarsi i capelli molto corti. Si vedeva una fioritura».
Il Giardino è rimasto incompiuto, ma è diventato comunque quel luogo magico di libertà che De Saint Phalle aveva immaginato. È pieno di immagini di serpenti, la trasfigurazione dell’aggressione sessuale subita dal padre. Ma, a differenza che nei «quadri da tiro», nel Giardino dei Tarocchi de Saint Phalle ha saputo trasformare la sua rabbia in figure incantate. A trovare la cosa più provocatoria e «sconvolgente» di tutto: la «gioia». Per sé stessa e per chiunque si perda tra i viottoli del suo Giardino.
(27esimaora.corriere.it, 17 settembre 2022)