di Giancarlo Bocchi
Biografie eccentriche. L’ultima parte della sua vita è la più misteriosa. Alcuni documenti inediti sulla fotografa e agitatrice politica che attraversò Hollywood, il Messico, Mosca.
Delle molte vite di Tina Modotti, operaia nelle filande, attrice a Hollywood, musa di artisti e fotografi come Diego Rivera ed Edward Weston, fotografa di fama internazionale, scrittrice di pamphlet, agitatrice politica, si sa molto. Ma c’è un’ultima vita, per molti aspetti ancora sconosciuta e gravida di segreti, che è tuttora avvolta nelle nebbie della Storia.
Ebbe inizio nell’ottobre del 1930 in Unione Sovietica, quando la Modotti dopo l’espulsione per motivi politici dal Messico giunse a Mosca dopo un breve e infelice soggiorno a Berlino. Anche se Tina mascherava i suoi sentimenti citando spesso una frase di Nietzche — «Ciò che non mi uccide mi dà forza» — nell’animo era turbata e smarrita. L’anno prima il suo compagno, il rivoluzionario cubano Antonio Mella, era morto tra le sue braccia in una strada di Mexico City vittima di un agguato politico dai contorni rimasti oscuri. Giunta a Mosca, l’affascinante fotografa dai capelli corvini e dagli occhi di carbone, elegante, con le calze di seta e profumata con costose essenze francesi, scoprì che il suo amico e accompagnatore nel viaggio sul piroscafo Edam dal Messico in Europa, l’agente stalinista Vittorio Vidali, uomo dai mille volti, il 2 ottobre si era sposato usando il nome di copertura di Jorge Contreras con Paulina Hafkina, una giovanissima russa, che aspettava un figlio da lui.
A Mosca Tina era alla ricerca di una nuova vita e di nuovi interessi. Era conosciuta come un’artista della fotografia, ma non era d’accordo se «le parole arte e artistico vengono applicate al mio lavoro… Mi considero una fotografa e niente di più». Invece di fotografare la complessa realtà della prima nazione del comunismo, Tina iniziò a lavorare per il Mopr (Soccorso rosso internazionale). In un documento autografo del 23 novembre 1930 dichiarò che Jorge Contreras (alias Vittorio Vidali) gli aveva consegnato i documenti dei Dipartimenti latino-americano, italiano, portoghese e spagnolo in ordine e aggiornati. Insieme all’ambizioso e spietato, Tina scrisse anche diverse lettere e risolse alcuni problemi delle sezioni canadesi, statunitensi, irlandesi del Soccorso rosso.
A Mosca Tina però non riuscì a fotografare. Perché non fu più capace di ritrovare nelle immagini quella originale sintesi tra forma e ideologia per quale era famosa? La luce slavata e tetra di Mosca, le difficoltà nel trovare i materiali fotografici per la sua Granflex e nell’ottenere i permessi per gli scatti non sono motivi sufficienti a giustificare una crisi artistica così profonda. «Vivo una vita completamente nuova, tanto che mi sento diversa» scrisse a Edward Weston, il grande fotografo americano suo confidente che l’aveva avviata alla fotografia.
Fino a qualche mese prima Tina aveva pensato che le immagini potessero produrre un cambiamento del mondo. Da quando era partita dal Messico con Vidali questo convincimento era stato rimpiazzato dall’idea dell’azione diretta, dell’agire come una vera rivoluzionaria. L’Ufficio speciale della Ogpu (la polizia segreta sovietica antesignana dell’Nkvd) il 12 marzo 1931 ricevette una richiesta da Elena Stassova, presidente di Soccorso Rosso, dove si chiedeva di autorizzare Tina a prendere visione e occuparsi di documenti segreti. La Quinta sezione speciale dell’Ogpu rispose il 24 aprile 1931, autorizzando la Modotti a svolgere quel lavoro segreto.
Da tempo le sezioni segrete di Soccorso rosso e del Comintern (la sezione supersegreta denominata Oss) agivano all’estero in stretta collaborazione e in supporto con i Servizi segreti sovietici, l’Ogpu (che diventerà poi Nkvd) e il Gru dell’Armata Rossa. Anche se Tina era riuscita a vendere l’ingombrante Granflex e a sostituirla con una modernissima (e introvabile in Urss) Leica mod. 1932 con esposimetro incorporato; anche se poteva diventare la fotografa ufficiale di qualche importante istituzione dello Stato sovietico, rifiutò ripetutamente le offerte di scattare foto.
In quei mesi aveva anche chiarito il rapporto con Vidali. In passato non si era preoccupata di avere avventure multiple, ma giunta a Mosca pensava solo ai suoi doveri e alla sua integrità di rivoluzionaria. Per questo scrisse in una autobiografia per presentarsi al Comintern: «Il nome di mio marito è Vittorio Vidali (Jorge Contrera). È di origine italiana. È membro del Partito Comunista ed è da anni rivoluzionario professionista». La sua autobiografia è un documento interessante. Tralasciando il fatto che Vidali avesse sposato qualche tempo prima una giovane russa, nel documento compaio significative omissioni sul passato lavoro di attrice nel cinema di Hollywood o sulla sua storia d’amore con il rivoluzionario Antonio Mella, amico di Andreu Nin, e in odore di trotskismo. Ma questa inconsueta autobiografia dattiloscritta offre anche un interessante spaccato psicologico di Tina. «Quando avevo nove anni mio padre emigrò negli Stati Uniti in cerca di lavoro. Per lunghi intervalli di molti mesi non ricevemmo da lui nessuna notizia né spedì soldi a casa per mancanza di lavoro. Ciò significa che dovevamo vivere praticamente di carità. All’età di 13 anni cominciai a lavorare e da quel momento in poi mi sono sempre guadagnata da vivere lavorando».
Nell’autobiografia del 1932 Tina si sentiva ancora una fotografa. «Considero la fotografia la mia professione perché è quella in cui ho lavorato più tempo e conosco tutte le fasi di questo lavoro». C’è però una nota conclusiva che fa pensare ad altre aspirazioni: «Conosco le seguenti lingue: italiano, spagnolo, inglese, nelle quali so scrivere e leggere. Inoltre conosco il tedesco e il francese, ma non correttamente e senza saperle scrivere».
Vittorio Vidali pensava da tempo che Tina fosse la persona ideale per il «lavoro segreto». Con il suo viso dolce e pulito, la sua eleganza naturale, la sua bella presenza poteva superare ogni confine. E per un agente segreto la fotografia era sempre più un lusso. «Questa rivoluzionaria italiana, artista straordinaria con la sua macchina fotografica, andò in Urss per fotografare la gente e i monumenti. Ma venne rapita dal ritmo incontenibile del socialismo in pieno fer<CW-5>mento e gettò la macchina fotografica nel fiume di Mosca, promettendo di consacrare la propria vita al più umile lavoro del Partito comunista» scrisse nel 1974 Pablo Neruda, amico della Modotti. In realtà Tina, prima di entrare definitivamente nella nuova vita delle ombre, degli specchi, dei misteri e dei segreti non gettò «la macchina fotografica nel fiume di Mosca».
Il 13 giugno 1932 nella stanza che occupava nello squallido e polveroso Hotel Soyuznaya, dopo aver sistemato obiettivo ed esposizione della sua Leica, la porse ad Angelo Masutti un ragazzo sedicenne che aiutava Vidali a Soccorso Rosso dicendogli: «Prendila… e fammi una foto». Il giovane scattò con la Leica una prima foto in controluce e un’altra con Tina semigirata verso la finestra. E poi una terza di Tina con Vidali dall’aria stranamente protettiva. Angelo Masutti fece per restituirle la macchina fotografica, ma Tina lo fermò dicendogli: «Tienila». Era ormai convinta che «Il partito avesse sempre </CW>ragione». E come disse il regista Sergej Eisenstein, «aveva sacrificato l’arte per la politica».
Tina iniziò a svolgere missioni segrete in Spagna, Francia, Germania, portando soldi, documenti, ordini, direttive. L’affascinante ed elegante signora «bela y hermosa» arrivata dal Messico qualche anno prima piena di forza, era diventata una donna silenziosa, triste, spesso depressa. Allo scoppio della Guerra civile spagnola i fotografi Robert Capa, David Seymour e Gerda Taro la incitarono a tornare a fotografare. Ma Tina preferì il lavoro con le autoambulanze e negli ospedali con il nome di battaglia di «Vera Martini» e successivamente con lo pseudonimo di «Maria» tornò al lavoro segreto sempre più triste e spenta.
Non si sa se partecipò ai complotti, alle trappole che portarono alle uccisioni degli oppositori di Stalin, degli anarchici e dei comunisti antistalinisti di Andreu Nin del Poum, delle quali fu accusato più volte «il marito» Vittorio Vidali. Al momento della sconfitta delle forze repubblicane di Spagna era una donna esausta, sofferente, sconfitta. Era invecchiata precocemente. Tornò in Messico e visse ancora qualche anno sempre più stanca, sempre più triste, dilaniata dagli incubi del passato. Morì all’alba del 6 gennaio. Sola, su un taxi nelle vie di Mexico city, dopo una lite con Vidali. Era stata definitivamente fagocitata dalle persone per le quali aveva abbandonato la sua arte.