di Francesca Maffioli
GRISELDA POLLOCK. Un’intervista con la storica e specialista di studi femministi postcoloniali
Nella misura in cui la storia dell’arte può essere definita un discorso egemonico, è necessario riflettere da una prospettiva femminista. Griselda Pollock, nata in Sudafrica nel 1949 (poi trasferitasi in Inghilterra), è una teorica e critica d’arte nonché specialista di studi femministi internazionali postcoloniali nelle arti visive, insegna Storia dell’arte e Studi culturali all’università di Leeds ed è autrice di numerosi testi non ancora tradotti in italiano: Old Mistresses, Women, Art and Ideology (1981), Differencing the Canon: Feminism and the Histories of Art (’99), After-effects/After-images: Trauma and aesthetic transformation in the Virtual Feminist Museum (2013) e il recente Charlotte Salomon and the Theatre of Memory (2018).
Per Pollock, il femminismo è già postulato come differenza, come qualcosa di estraneo ed esterno alla storia dell’arte, contraddicendo la sua inevitabile logica. L’abbiamo incontrata nel contesto del seminario interuniversitario organizzato da Nadia Setti nella sede del Cnrs di Parigi, in partenariato con Legs, Gradiva e Sil.
Come si situa la differenza sessuale nella pratica estetica?
Nel linguaggio comune, la differenza sessuale può significare la differenza tra i sessi. Poi c’è l’idea di una differenza sessuale come condizione psicologica o psico-linguistica, che deriva dalla formazione della soggettività e non dalla morfologia dei corpi. È associata alle teorie psicoanalitiche riguardo la formazione della soggettività (maschile e femminile). Poi c’è una terza posizione femminista in cui una differenza sessuale, cioè legata alla mascolinità e alla femminilità, è derivata anche dai modi in cui concepiamo l’immaginario corporeo.
Quest’ultima presuppone che il femminile non sia definito semplicemente come il negativo del maschile fallico. Le pratiche artistiche si riferiscono alla comprensione storica e culturale dell’arte e della sua ricezione: consentono di focalizzarsi su una dimensione che attiva l’estetica, cioè gli elementi subliminali e sub simbolici di ritmo, movimento, respiro, suono, colore, tatto, sensazione. Questa consapevolezza è resa possibile dagli sviluppi nell’arte del XX secolo che si sono concentrati non solo sugli aspetti formali, ma anche sulla materialità e i processi (gesto, colore o spazio).
Se tutta l’arte può essere affrontata attraverso la lente dell’attenzione modernista alla forma, alla materialità e al processo, è stata proprio l’opera d’arte modernista che ha lasciato in eredità questo livello di sensibilità a tutta l’arte successiva. L’analisi femminista attinge alla consapevolezza necessaria all’indagine di tracce delle differenze sessuali che non sappiamo come riconoscere. Imparare a «leggere» tale differenza richiede la sintonizzazione alla possibilità stessa che la soggettività e persino i nostri immaginari psicocorporei non siano ciò che ci è stato insegnato dalla cultura patriarcale e dal pensiero fallocentrico.
Nella storia dell’arte occidentale le donne sono state oggetto dello sguardo maschile, oppure hanno occupato la posizione di spettatrici. Come considera queste due prospettive?
La teoria dello «sguardo erotizzato» nasce dallo studio del cinema come apparato che colloca uno spettatore presunto in una posizione simile a quella del voyeur. Il cinema «mascolinizza» psicologicamente la «spettatorialità» cinematografica, a prescindere dal sesso o dalla sessualità della persona reale seduta in platea. Il campo visivo viene organizzato secondo certe fantasie di dominio, possesso o punizione, razzializzate e sessualizzate e connotate secondo il genere. Quando questa teoria cinematografica è stata presa in prestito dalla storia dell’arte, abbiamo imparato a esaminare i dipinti – e in particolare la prospettiva e l’organizzazione della composizione – per osservare come il campo visivo all’interno dell’immagine fosse organizzato e come proiettasse uno sguardo prevalente. L’arte visiva si presenta inevitabilmente per essere percepita, consumata o interpretata attraverso l’erotismo e gli elementi cognitivi del vedere. Non è sufficiente essere una donna per contrastare lo sguardo mascolinizzato. La resistenza è una posizione critica in relazione a un apparato potente, seducente e ideologicamente carico. L’«indocilità» postcoloniale femminista, queer e antirazzista coinvolge sia il lavoro su se stesse e se stessi – in quanto spettatori già trascinati dall’ideologia – ad accettare queste relazioni di potere come normali, sia quello sul processo di creazione di immagini e la proiezione dei punti di osservazione. Lavorare consapevolmente può sovvertire il dominio automatico dello sguardo mascolinizzato e sollecitare altri modi di interagire visivamente con il mondo.
In «Differencing the Canon: Feminism and the Writing of Art’s Histories», lei considerava fondamentale un aspetto poco considerato dalla critica, cioè l’asse privato-famigliare. Quanto è importante la biografia e l’attenzione alle soggettività femminili?
Dividere il pubblico e il privato rappresenta una grande strategia patriarcale. La separazione di queste due sfere è una caratteristica della prima modernità, che ha inventato lo spazio pubblico nella lotta contro quello privato del monarca e la sua corte. Tale divisione è stata intensificata dalla borghesia in modo che la cesura diventasse politica, sociale e culturale tra uomini e donne. È in questo contesto che incontriamo un discrimine curioso: le vite, gli amori e gli stati d’animo sono chiamati cultura. Tutti gli studi d’arte, dal Vasari in poi, hanno iniziato a interessarsi alla psicologia e alla biografia dell’artista. Il discrimine non è quindi tra pubblico e privato, ma tra i diversi valori attribuiti alla soggettività degli uomini come artisti e alla soggettività ed esperienza delle donne.
Gli storici dell’arte hanno difficoltà a mettere insieme i due termini – artista e donna. Così trattano il mondo interiore di un’autrice non come una soggettività artistica ma come la condizione dell’essere una donna. Nel mio lavoro, mi rifiuto di essere guidata verso l’altro estremo, che è quello di non considerare l’esperienza vissuta. Cerco di affrontare il soggetto partendo da un profondo coinvolgimento con il significato culturale delle teorie psicoanalitiche della soggettività.
I nostri corpi mentali sono plasmati in modi materiali dalle relazioni di classe tanto quanto dal politico e dalle relazioni culturali e sociali di genere e razza, abilità e disabilità, posizione geopolitica. L’esperienza vissuta non deve essere esiliata dai nostri studi di creazione artistica o dalle nostre letture di immagini ma deve essere teorizzata e usata in modo critico in congiunzione con una rigorosa comprensione storica e un’analisi semiotica altrettanto rigorosa della produzione di significati.
Lei parla della possibilità di una trasformazione estetica del trauma inespresso e incancellabile. Può spiegarci come un trauma storico si rapporta alla memoria culturale?
Bisogna innanzitutto chiedersi come sia possibile usare il termine trauma su scala sia individuale sia collettiva. La psicoanalisi ci aiuta a intendere il trauma individuale come il ferimento della psiche quando un evento travolge le nostre difese coscienti e ferisce letteralmente la psiche a causa di uno shock. I gruppi non hanno una psiche di gruppo, e neppure le nazioni. Eppure parliamo di traumi culturali o storici. Per capire bisognerebbe considerare che il problema del trauma individuale è che non è rappresentato. Non sappiamo cosa sia successo; sopportiamo i suoi effetti. Il trauma usato in relazione a società o culture può essere compreso solo metaforicamente. Storicamente possono verificarsi eventi eccezionali per i quali non abbiamo termini esistenti con cui offrire una narrazione dell’accaduto. Mi sono chiesta: gli artisti viaggiano lontano o verso il trauma? Il ruolo del loro lavoro – affrontare la nostra condizione post-traumatica – contribuisce all’incontro estetico come una «stazione di trasporto del trauma». L’espressione è dell’artista Bracha L. Ettinger. L’arte può essere l’occasione di un incontro, tra l’artista e il passato e presente traumatico, e tra l’opera e lo spettatore. Il lavoro di trasformazione deve essere fatto da ognuno di noi. Non può essere lasciato a rituali e memoriali.
(il manifesto, 6 giugno 2018)