di Giovanna Zapperi,
Femminismi. In due libri, un’analisi sulla creatività femminile degli anni Settanta, sfatando il luogo comune che una prospettiva di genere, nelle arti visive, non sia mai esistita in Italia
Se le Guerrilla Girls – collettivo di artiste travestite da gorilla – si aggirassero per le strade Roma in queste settimane avrebbero sicuramente qualcosa da ridire sulla mostra del Palazzo delle Esposizioni sull’arte a Roma negli anni settanta, dove le artiste si contano sulle dita di una mano, e il ruolo del femminismo è relegato a una nota a piè di pagina. Eppure Roma negli anni settanta è stato il cuore pulsante di un movimento che ha avuto un impatto talmente profondo e ramificato da coinvolgere gli aspetti più diversi della vita sociale e della cultura. L’arte non è di certo rimasta illesa, come fortunatamente ci ricordano due preziosi volumi pubblicati recentemente, tra i primi tentativi di rileggere l’arte italiana degli anni settanta a partire da una prospettiva femminile e femminista. La questione del genere appare sempre più chiaramente come il grande rimosso della storia dell’arte italiana del secondo dopoguerra, dove le intense discussioni sviluppatesi nel mondo anglosassone sul sessismo della disciplina hanno avuto scarsissima eco. Tra mito e istituzione I libri di Raffaella Perna (Arte femminismo e fotografia in Italia, Postmediabooks 2013, 112 pagine, 79 illustrazioni, euro 16,90) e di Marta Seravalli (Arte e femminismo a Roma negli anni settanta, Biblink 2013, 250 pagine, 12 illustrazioni, euro 26) affrontano la complessità del nesso tra arte e femminismo in Italia portando alla luce una serie di storie sommerse che chiamano indirettamente in causa le narrazioni artistiche «canoniche» (leggi: maschiliste) ancora fortemente in auge. Il primo dato che emerge con forza dalla lettura di questi due libri è, infatti, la constatazione di un processo di rimozione attiva delle presenze femminili nell’arte in Italia. Sono almeno due i miti che risultano immediatamente sfatati da queste nuove ricerche: quello della scarsa presenza femminile e quello dell’incontro mancato tra arte e femminismo in Italia. Contrariamente a quanto si può desumere dalla maggior parte delle esposizioni e pubblicazioni dedicate all’arte di quegli anni, le autrici attive negli anni settanta erano numerosissime, e molte di loro erano anche direttamente coinvolte nel movimento femminista attraverso collettivi e iniziative che ponevano con forza i temi del fallocentrismo delle istituzioni artistiche e della creatività femminile all’interno di una riflessione più ampia sui rapporti tra i sessi. Emerge, in modo chiaro, come ogni tentativo di costruire una narrazione omogenea del binomio «arte e femminismo» sia destinato al fallimento, vista la molteplicità dei modi, diretti o indiretti, in cui i temi femministi hanno agito nelle elaborazioni artistiche di quegli anni. Il secondo dato su cui vale la pena insistere — e che accomuna i due volumi — è la constatazione della sorprendente tempestività delle esperienze italiane nel contesto internazionale. Si tende troppo spesso a dimenticare che l’emergere di una coscienza femminista nel mondo dell’arte è stata ovunque un fatto minoritario e marginalizzato perché entrava in conflitto con tutto quell’apparato mitico-istituzionale che metteva al centro la figura dell’artista maschile, la sua originalità e virilità. Questo è vero persino per un paese come gli Stati Uniti, spesso evocato come termine di paragone, dove le esperienze artistiche femministe acquistarono visibilità e rilevanza ben maggiori che in Europa. Nel breve volume dedicato all’uso femminista della fotografia, Raffaella Perna ripercorre a grandi linee il lavoro di alcune artiste che si sono focalizzate sui temi dello stereotipo, la costruzione del femminile tra immagine e linguaggio, la rappresentazione del corpo e della sessualità della donna, la violenza di genere. Come sottolinea l’autrice, la fotografia ha giocato un ruolo importante nell’articolare questi temi sia perché storicamente ha costituito un’arena privilegiata per la sperimentazione identitaria, sia perché l’uso di questo medium permetteva una più grande libertà rispetto ad altri supporti con una tradizione più consolidata alle spalle. Attraverso la fotografia si dispiega quel teatro dell’identità che costituisce uno dei tratti distintivi delle sperimentazioni di questi anni su scala internazionale: nei tableaux fotografici di Verita Monselles o nelle autorappresentazioni collettive di Marcella Campagnano si delinea una riflessione sui ruoli di genere che prende le mosse dall’analisi dei meccanismi della reificazione dell’identità femminile, messi in atto da pubblicità e cultura di massa. Il rapporto tra immagine e linguaggio è, invece, uno dei temi che accomunano alcuni dei lavori di Cloti Ricciardi, Ketty La Rocca o Stephanie Oursler. Come rileva Perna, la contestazione del linguaggio attraverso il ricorso a gesti e immagini è un tema centrale per queste artiste che considerano la parola scritta come uno strumento del dominio patriarcale. È interessante questa critica del linguaggio soprattutto se letta in riferimento alla centralità della parola scritta nella storia del femminismo italiano, spesso raccontato come un movimento focalizzato essenzialmente sulla parola, lasciando nell’ombra la sua dimensione visuale. La questione delle teorizzazioni femministe in ambito artistico è invece uno degli aspetti analizzati dal libro di Marta Seravalli, che tenta una ricostruzione storica dei rapporti tra arte e femminismo a Roma negli anni settanta, a partire da Carla Lonzi e dalla nascita di Rivolta femminile nel 1970. Come è noto, la vicenda di Carla Lonzi, che abbandona la critica d’arte per il femminismo, ci pone di fronte ad un’alternativa drastica: l’arte o il femminismo. Il libro prende le mosse dalla constatazione che Rivolta femminile nasce dall’iniziativa di una critica d’arte e di un’artista, Carla Accardi, e prende in esame, attraverso un’accurata documentazione, diverse modalità di identificazione femminista nel mondo dell’arte romano. Nei suoi primi anni di vita, furono numerose le autrici che transitarono per Rivolta (tra loro Suzanne Santoro, Stephanie Oursler, Simona Weller, Elisabetta Gut, Elisa Montessori…), fino all’esplodere di un conflitto che culminò con la loro fuoriuscita e la nascita della cooperativa del Beato Angelico nel 1976, una delle più significative esperienze di collettivi in ambito artistico. La «presenza/assenza» delle artiste nel femminismo italiano si delinea come un aspetto doppiamente rimosso, sia nella storia dell’arte che in quella del femminismo stesso. Quello che colpisce in particolare nella lettura del libro di Seravalli è la restituzione di un articolato dibattito femminista sui temi dell’immagine e dell’arte, che si sviluppa in particolare attraverso le pagine di alcune riviste femministe, e in misura minore, nei magazines d’arte. Attraverso la lettura dei testi di artiste come Cloti Ricciardi e Simona Weller, o di critiche come Lea Vergine e soprattutto Anne-Marie Suzeau Boetti, è possibile ritracciare le premesse di una critica femminista dell’arte che verrà poi accantonata e dimenticata nel corso degli anni ottanta. In questo quadro, rimangono però sullo sfondo gli scritti di Carla Lonzi che rappresentano forse la critica più articolata al fallocentrismo dell’arte, portata avanti in modo frammentario e discontinuo da una posizione esterna al mondo artistico. Conflitti, non ghetti Questo aspetto produce un forte impatto soprattutto alla luce del fatto che le tematiche femministe, nella storia dell’arte, sono considerate in Italia perlopiù come merce d’importazione (anglo-sassone), come se non fosse mai esistita una riflessione «locale» su questi temi. Tuttavia – questo è forse uno dei limiti di entrambi i testi qui analizzati – le due autrici faticano ad articolare la vitalità di quei primi tentativi di critica con l’attuale dibattito internazionale. Il risultato, o piuttosto il rischio in cui si imbattono, sia Seravalli che Perna, è quello di rivolgersi alle esperienze analizzate, senza mettere davvero in discussione un quadro epistemologico che quelle esperienze avevano contestato in modo così radicale. Il femminismo è, infatti, preso in esame come una fase storica e molto meno come una chiave di lettura del mondo e dei rapporti sociali, e dunque anche della storia dell’arte e dei suoi metodi. Se è vero che negli anni settanta, per la prima volta nella sua storia, il femminismo ha incontrato l’arte, questo non significa che possa essere considerato come un ennesimo «ismo» da aggiungere a una storia già confezionata delle tendenze artistiche del Novecento. In questo senso, la necessità di riportare alla luce il rimosso del nesso tra arte e femminismo negli anni settanta — di cui si fanno carico questi volumi — rischia di tradursi in un dispositivo che rinchiude il conflitto tra i sessi in un momento storico delimitato. Come ci insegnano le artiste e le critiche d’arte al centro di questi libri, la prospettiva femminista ci obbliga a riconsiderare in una prospettiva di genere quell’insieme di pratiche, istituzioni e soggettività che definiscono l’arte. Nelle narrazioni femministe dell’arte che si stanno affacciando nel dibattito italiano, il difficile equilibro tra storicizzazione e attualizzazione fornirà senza dubbio ulteriore materia di discussione.