di Arianna Di Genova
Mostre. Alla Galleria nazionale d’arte moderna, la rassegna che si ispira a Carla Lonzi e ai suoi gesti di «rivolta», con centoventi opere e parte del suo archivio fotografico, per la prima volta fruibile
In un periodo di incertezze, costellato di onde anomale virali, malinconici nascondimenti dietro le tende delle proprie finestre, relazioni interrotte e spazi del mondo evaporati, alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma inaugura una mostra che invece rimanda a un «luogo aperto» e in continua costruzione: quello della presa di parola a partire da sé, in prima persona. Non un monologo interiore (che avrebbe il difetto della incomunicabilità e del sigillo psichico) ma la raccolta di sensazioni, immagini, dati, narrazioni, percorsi in soggettiva.
Una soggettiva che assume come prospettiva lo sguardo femminile, essendo le testimoni di questa disseminazione esperienziale tutte artiste, appartenenti a diverse generazioni. D’altronde, la pandemia è proprio alle donne che ha tolto la parola, il lavoro, la visibilità sociale, invertendo tragicamente la rotta di una trasformazione che si avviava verso la «cucitura» delle ferite della disparità di genere.
A fare da apripista a questo abecedario libero – che non prevede regole alfabetiche né rigide cronologie ma sposa l’andamento caotico e ordinato allo stesso tempo della creatività – è Carla Lonzi. È a lei che si riferisce, per assonanza elettiva, il bel titolo della mostra Io dico io, I say I, che si snoda dal salone centrale irradiandosi ovunque grazie alla cura di Cecilia Canziani, Lara Conte e Paola Ugolini (visitabile fino al 23 maggio). Una rassegna che ha dovuto aspettare un anno slittando fino a oggi e che approfitta della «finestra gialla» del Lazio per comporre quella «molteplicità di rappresentazioni» che tessono i fili di una geografia conviviale con quasi centoventi opere e un coro polifonico di voci d’artista.
Per entrare nella «giostra dell’identità» dove il corpo non è mai un limite ma sempre uno sconfinamento, si varca la soglia delineata dall’architettura a mo’ di luminaria che si accende per le feste di Marinella Senatore (Remember the first time you saw your name, «ricorda la prima volta che hai visto il tuo nome») che aveva già ammaliato alla sfilata della maison Dior in Puglia.
A chiusura dell’itinerario carsico della mostra c’è – una volta affrontata la scala che regala altri spazi sospesi – l’archivio di Carla Lonzi: fotografie di quotidianità e arte che hanno composto un immaginario e che, per la prima volta, possono presentarsi al pubblico. Sono i meravigliosi tasselli di una storia che potrebbe anche far concepire una nuova museologia – il prezioso patrimonio è stato donato alla Galleria nazionale dal figlio Battista Lena e dal 2018 si sta procedendo all’inventario e all’indicizzazione che fino a ora prevede 99 voci bibliografiche.
Per terminare il puzzle di quella radicalità assunta come modello esistenziale, con un’attitudine più meditativa rispetto alla veloce visita di una esposizione, si possono consultare i materiali dell’archivio online su Google Arts & Culture, all’indirizzo g.co/womenup. Anche in quella «stanza tutta per sé» Lonzi comunque dialoga con le artiste contemporanee che attorniano le fotografie della sua collezione privata con i loro ultimi lavori (fra cui anche quello di Pippa Bacca, che fu violentata e uccisa in Turchia mentre viaggiava vestita innocentemente da sposa per la sua performance).
Passeggiando a ritroso nell’esposizione, come colonne portanti di «quel gesto generativo di rivolta» che caratterizzò l’essere al mondo di Lonzi, troviamo Origine di Carla Accardi (dedicato alle sue antenate) e il video «domestico» La conta di Marisa Merz (1967). Ma poi, dopo quelle attestazioni di conquista di spazi strappati a un dominio tutto maschile ancora nel decennio dei Sessanta (fra le «madri» ci sono anche Antonietta Raphaël Mafai, Carol Rama, Ketty La Rocca, Giosetta Fioroni, Elisa Montessori e Lisetta Carmi con le sue peregrinazioni intorno ai corpi nomadici), si dipanano altre «azioni» fondative. Per esempio, quella reiterata da Sabrina Mezzaqui per la trascrizione dei quaderni di Simone Weil, il parto di Silvia Giambrone (suggerito dal busto femminile rivestito con un body che accentua la connotazione sessuale con il «monte di Venere») o la scelta delle perle – ingigantite in Bruna Esposito e a cascata, a formare un corpetto, per Paola Pivi – come oggetto feticcio, dispositivo lunare e intrecciato alle profondità dell’inconscio. Qui contra nos recita invece lo specchio nobiliare in cui Marzia Migliora fa precipitare frammenti di storia recente (sarà lei oggi la protagonista della video-diretta per la rubrica Alt del manifesto, alle ore 18). E con un gioco di assenza e presenza, Gea Casolaro in El tiempo de alzar los ojos ricorda, infine, che quell’«io» assertivo, protagonista della rassegna, è in grado di far germinare in sé una moltitudine di soggetti.
(il manifesto, 9 marzo 2021)