di Elena Tebano
La scoperta di Vivian Maier è una delle vicende più straordinarie della recente storia della fotografia. Nel 2007 il contenuto di un deposito in cui l’allora sconosciuta Vivian Maier conservava parte delle sue stampe e dei suoi rullini andò all’asta, suddiviso in diversi lotti. Uno dei compratori, John Maloof, un giovane che aveva lasciato la scuola d’arte per problemi di soldi e si era dedicato a lavori diversi, tra cui l’agente immobiliare, capì presto il valore artistico delle fotografie di Maier. E si organizzò con un altro degli acquirenti, Jeffrey Goldstein, per raccogliere tutto il suo archivio – 143mila immagini, di cui Maier aveva stampato solo il 5% – e poi organizzare una mostra in collaborazione con il Chicago Cultural Center. Allestita nel 2011, fu subito un successo e proiettò Maier, bambinaia di professione e fotografa solo per passione, nell’olimpo della fotografia. Da allora le sue mostre hanno fatto il giro del mondo; l’ultima, dedicata agli scatti “italiani” di Maier si è conclusa alla fine di giugno a Torino (qui la recensione sul Manifesto). Maier era morta a ottantanove anni solo due anni prima, senza mai sapere di essere stata “scoperta”. I suoi primi curatori l’hanno rintracciata solo dopo la sua morte, grazie al necrologio pubblicato su internet: lei aveva vissuto sempre nel più totale riserbo.
Il suo successo postumo è dovuto in parti uguali alla bellezza delle sue foto e al mistero che la circonda. Perché una fotografa così talentuosa non solo non ne ha mai fatto un lavoro a tempo pieno, ma ha letteralmente lasciato la maggior parte dei suoi rullini chiusi in un deposito, spesso senza neanche svilupparli?
La risposta a queste domande si può ora trovare in Vita di Vivian Maier. La storia sconosciuta di una donna libera, l’imponente biografia della Maier appena edita in Italia da Utet. È nata anch’essa dalla curiosità nei confronti di questa donna misteriosa: la sua autrice, Ann Marks, non è una biografa di professione, né una studiosa di fotografia, ma un’ex dirigente d’azienda in pensione che si è appassionata alla storia di Maier dopo aver visto un documentario e ha deciso di indagare più in fondo. Il limite del libro sta forse qui, ma è comunque una straordinaria fonte di informazioni e una preziosa raccolta di oltre 400 foto, molte delle quali sconosciute, di Vivian Maier.
Marks ricostruisce la storia familiare di Maier, segnata da uomini inaffidabili e violenti e donne che – in tempi in cui le donne avevano pochissime possibilità – hanno dovuto cavarsela da sole, spesso lasciando indietro le loro figlie, che ne hanno pagato il prezzo. È successo alla nonna materna di Maier, Eugénie Jaussaud, originaria di Saint-Julien-en-Champsaur, un villaggio delle Alte Alpi francesi nella regione della Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Figlia di contadini, rimase incinta a sedici anni del bracciante che lavorava nella fattoria dei genitori e che si rifiutò di sposarla. Sua figlia Marie, la madre di Vivian, nacque dunque nel 1897 fuori dal matrimonio e lei e Eugenie ne patirono lo stigma che ne derivava all’epoca. Quattro anni dopo, Eugenie partì da sola per l’America, dove nessuno sapeva della sua figlia illegittima, e iniziò a lavorare come cuoca per le famiglie ricche dell’East Coast. Marie fu tirata su dalla nonna e raggiunse sua madre, che praticamente non conosceva, solo quando aveva diciassette anni, nel 1914. Sembra una storia lontanissima, eppure è quello che succede ancora oggi ai figli e alle figlie di tante tate, colf e badanti ucraine, sudamericane o filippine che lavorano nelle case italiane.
Pochi anni dopo, nel 1919, Marie, cattolica, sposò il luterano Charles Maier, in un matrimonio traballante fin dall’inizio, se è vero che i testimoni furono la moglie del pastore che lo officiò e il custode della chiesa. L’anno dopo nacque il loro primo figlio, Carl, e poi, nonostante la coppia si lasciasse e riprendesse continuamente, Vivian, nel 1926. Charles era dipendente dall’alcol e dal gioco, la madre sofferente e incapace di tenersi un lavoro, e nel 1927 si lasciarono definitivamente. Carl fu messo in orfanotrofio, Vivian rimase con la madre che però la lasciava spesso sola o in qualche casa-famiglia, fino a quando dopo l’inizio della grande Depressione si trasferì a casa di Jeanne Bertrand, fotografa francese amica della nonna dall’inizio della sua immigrazione americana. Fu lei probabilmente ad avvicinare Vivian alla fotografia. Dopo un periodo in Francia con la madre, tra il 1932 e il 1939, Vivian tornò a New York e iniziò a lavorare a 17 anni in una fabbrica di bambole. Poi, dopo un altro breve viaggio in Francia per vendere un terreno ricevuto in eredità alla morte della nonna, iniziò a lavorare come bambinaia. Lo avrebbe fatto per tutta la vita.
La sua passione per la fotografia era iniziata in Francia, con la macchina fotografica di sua mamma, l’unica in tutto il villaggio. Vivian la coltivò per anni, soprattutto a New York, dove negli anni 50 frequentava fotografi e artisti, tra cui Jeanne Bertrand. Marks racconta che però non riuscì mai a farne un lavoro, forse perché donna, autodidatta ed estranea agli ambienti della fotografia professionale. Sicuramente anche la sua storia familiare ebbe un peso. Sua madre fin dal 1939 iniziò a mostrare gravi disturbi mentali e morì in solitudine. Il fratello Carl fece dentro e fuori dal riformatorio, da ragazzo, e poi dal carcere, da adulto. Ebbe problemi di dipendenza dall’alcol e dalla droga e alla fine gli fu diagnosticata una forma di schizofrenia. Morì in una struttura di ricovero dopo aver passato lunghi periodi in psichiatria.
Vivian dopo essersi trasferita a Chicago condusse una vita sempre più solitaria. Sviluppò un disturbo da accumulo, collezionando soprattutto libri e giornali, tanto da rendere praticamente inabitabile camera sua e da dover affittare i depositi che alla fine finirono all’asta. Il fatto che non abbia mai stampato né mostrato la maggior parte delle sue fotografie potrebbe avere a che fare con questa difficoltà di lasciare andare che affligge molti accumulatori. Ma all’epoca non esisteva né diagnosi né cura per il suo disturbo, che finì per causarle problemi anche con i suoi datori di lavoro. Marks è convinta che Maier possa aver subito anche violenze o abusi sessuali: provava «orrore» per gli uomini, non sopportava il contatto fisico, aveva «reazioni brusche che facevano pensare a improvvisi flashback traumatici», «raccomandava alle bambine di non sedersi in braccio agli uomini e descriveva loro tutti i reati violenti o a sfondo sessuale di cui un uomo si poteva macchiare». È impossibile da sapere con certezza, ma è tutt’altro che improbabile. In ogni caso i bambini che ha cresciuto facendo la tata la raccontano come una donna eccentrica ma capace d’amore.
In mezzo a tutte queste difficoltà, Vivian Maier ha saputo anche trovare e coltivare la sua immensa creatività. Tra i suoi soggetti preferiti ci sono i bambini, forse un modo per sanare attraverso l’arte la sua infanzia piena di abbandoni. E poi le donne della classe lavoratrice in mezzo alle quali ha vissuto. Ha nutrito da sola il suo talento superando gli ostacoli della povertà, di una mancanza di istruzione formale, dei pregiudizi di genere in un’epoca in cui per una donna anche muoversi da sola senza meta per la città era malvisto e pericoloso. Nonostante tutte le ferite che la vita può averle inferto ha saputo costruire bellezza. L’arte è questo. E lo è anche se nessuno la vede, come è successo a lungo con le sue fotografie.
(27esimaora.corriere.it, 9 luglio 2022)