di Lucia van der Post
C’è una storia molto nota sugli inizi della carriera della grande architetta francese Charlotte Perriand che fa capire perché così tante designer di talento siano state a lungo sottovalutate. A ventiquattro anni, Perriand fece domanda per andare a lavorare nello studio di Le Corbusier e fu rifiutata con queste parole: «Qui non ricamiamo cuscini». La storia racconta che, appena un mese dopo, gli arredi (in alluminio, acciaio cromato, vetro e pelle) che Perriand aveva creato per il suo appartamento-studio furono reinventati come angolo-bar in un’installazione al Salon d’Automne del 1927 a Parigi. Era un’estetica che incarnava la nuova “era delle macchine” e Le Corbusier ne rimase affascinato. Allora venne assunta e iniziò una collaborazione di dieci anni con il famoso architetto e il di lui cugino Pierre Jeanneret.
Nonostante il lavoro visionario che Perriand fece insieme a Le Corbusier − poi con il pittore francese Fernand Léger, negli anni Trenta, e con l’architetto Jean Prouvé nei Cinquanta − è solo di recente, qualche anno dopo la morte avvenuta nel 1999, che si è cominciato a capire l’importanza della sua figura e l’attualità del suo lavoro. Nel 2019, circa 476mila persone hanno visitato la grande retrospettiva a lei dedicata dalla Fondation Louis Vuitton con il sostegno di Cassina. Quest’anno, contestualmente alla 17esima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, dal 22 maggio al 21 novembre, la Fondation Louis Vuitton esporrà, nel suo Espace di Venezia, il progetto Tritrianon (1937) di Perriand, un’abitazione basata su assemblaggi modulari, prodotta in serie e con un impatto minimo sull’ambiente, facendolo dialogare con Power Pack (1969), l’unità abitativa autosufficiente e trasportabile di Frank Gehry. La mostra Charlotte Perriand and I: converging designs by Frank Gehry and Charlotte Perriand vuole essere più di un excursus storico, piuttosto presentare soluzioni concrete per il mondo di oggi. A staffetta, dal 19 giugno, il Design Museum di Londra inaugurerà la personale Charlotte Perriand: The Modern Life. «Faremo vedere disegni e taccuini che illustrano il suo modo di lavorare», spiega il curatore Justin McGuirk. «Non stiamo parlando di un genio solitario, Perriand era prima di tutto una grande collaboratrice».
L’opera più significativa di Perriand, Les Arcs, il resort sciistico francese ideato da un collettivo di architetti da lei guidato, incarna questo spirito. Il progetto, che fu inaugurato nel 1968 e prese forma negli anni Settanta, mette in evidenza anche le sue capacità di interior designer e di paesaggista. Fu lei a proporre la serie di sinuose terrazze del resort che fendono come onde il pendio della montagna. L’architettura esprime e sintetizza una convinzione che la progettista nutrì per tutta la vita: il buon design fa vivere meglio e dovrebbe essere alla portata di tutti. «Les Arcs è la sintesi delle sue idee sulla vita e sul design», spiega ancora McGuirk. «È un resort che si rivolge a un turismo di massa, ma dotato di etica e di nobili principi; proponeva un certo stile di vita e offriva accesso allo sport e alla natura (per lei sempre molto importanti)».
Eppure, la carriera di Charlotte Perriand è stata a lungo oscurata dalla fama dei suoi colleghi uomini. Le Corbusier, in particolare, è stato spesso accreditato come creatore unico di progetti e pezzi di design frutto di una collaborazione. È stata Perriand, per esempio, a progettare le cucine modulari per le pionieristiche Unité d’Habitation de la Cité Radieuse di Le Corbusier a Marsiglia. Tre delle più importanti sedute ideate dallo studio Le Corbusier negli anni in cui Perriand ci lavorava – la Grand Confort, la Basculante e la Chaise Longue – sono state per anni attribuite solo a lui, ma fu lei a metterne a punto il design preciso.
Ora che Charlotte Perriand è riconosciuta a pieno titolo come una formidabile designer, il suo lavoro attira l’attenzione dei grandi collezionisti. Living with Charlotte Perriand, il recente libro curato dal mercante d’arte francese François Laffanour, per esempio, racconta le sue esperienze e quelle di altri collezionisti. Intanto, i pezzi originali di Perriand incassano somme importanti sul mercato internazionale. Di recente, il tavolo Eventail, un pezzo unico disegnato negli anni Settanta per il suo chalet, è stato valutato da settecentomila a un milione di euro da Sotheby’s, e un semplicissimo tavolo in legno è stato venduto, lo scorso novembre da Phillips, per 52.920 sterline. Un paradosso, forse, per chi voleva che il buon design fosse democratico. Oggi varie riedizioni sono prodotte da Cassina: dalla chaise longue Tokyo (1940), che ideò mentre viveva in Giappone, reinterpretando con il bambù la LC4 dello studio Le Corbusier, alla libreria modulare Nuage (1952/1956). I suoi arredi erano tutto ciò che il design francese di allora non riusciva a essere: leggeri, spesso realizzati con metodi industriali, colorati e, quando era il caso, modulari.
Laure Adler, autrice del volume Charlotte Perriand (Gallimard), dice che il lavoro della progettista aderiva ad alcuni valori fondamentali: «Ciò che ha creato è frutto di un istinto, di un talento artistico sostenuto da una ricerca tecnica di alta precisione. Forse è proprio questa combinazione di materiale e spirituale che chiamiamo grazia».
Ma Perriand non è l’unica ad avere ottenuto riconoscimenti tardivi. Women Design, il libro dell’ex gallerista Libby Sellers, è pieno di storie simili, e quella della grande Eileen Gray è una delle più illustri. Sellers racconta di come Le Corbusier fosse rimasto talmente scioccato nell’apprendere che la villa modernista E-1027 – capolavoro architettonico di Eileen Gray completato nel 1929 in Costa Azzurra – fosse stata progettata da una donna che non solo ne imbrattò (o dipinse, dipende dai punti di vista, ndr) le pareti, ma le costruì accanto il famoso Cabanon per tenerla d’occhio. Oggi, nel Regno Unito, Aram produce molti pezzi di Eileen Gray. Il suo proprietario, Zeev Aram racconta di aver visto alcuni suoi disegni nel 1973 in mostra alla Heinz Gallery di Londra e di esserne rimasto così colpito da voler rintracciare l’autore. Ha così incontrato la nipote di Eileen Gray, l’artista Prunella Clough, e concordato di rimettere in produzione diversi pezzi. Ora sono classici ricercatissimi: il tavolino E-1027 in vetro e tubolare d’acciaio e la poltrona Bibendum sono tra gli arredi più copiati al mondo.
Anche l’opera di una designer italiana, Gabriella Crespi (1922-2017), è stata oggetto di riscoperta e di rinascita. Di recente, Dimoregallery ha rieditato alcuni suoi tavoli e lampade creati tra il 1970 e il 1980. Crespi è stata una figura molto affascinante. Sposandosi, entrò a far parte dell’omonima famiglia di industriali, allora anche proprietaria del Corriere della Sera. Il suo stile ha un glamour molto sofisticato e le sue creazioni più famose sono i lucenti tavoli in bronzo e le lampade in acciaio e plexiglas che propone Nilufar. Crespi ha lavorato tanto con il bronzo e altri metalli e alcuni suoi tavoli Scultura, rivestiti in ottone, sono stati venduti da Phillips per 74.340 sterline.
L’artista contemporanea franco-svedese Ingrid Donat è conosciuta tra gli specialisti del settore, ma ancora poco nota ai più, anche perché lavora soprattutto per clienti privati per i quali crea interni straordinari progettati nel minimo dettaglio, dalle finiture delle pareti alle lampade. Oggi le sue creazioni vengono battute all’asta per cifre importanti (il suo cassettone Commode Galuchat è stato venduto da Phillips per 275.200 dollari). Molti sono pezzi unici, altri sono disponibili in edizioni limitate di otto esemplari e Carpenters Workshop Gallery, co-fondata da suo figlio Julien Lombrail, è l’unica a rappresentarla. Donat ha iniziato come scultrice e il suo Buffet Klimt Cinq Portes (2017), un piccolo armadio in bronzo ispirato a Gustav Klimt, illustra perfettamente la sua estetica che, influenzata da motivi tribali africani, combina forza e semplicità.
Un altro talento rappresentato da Carpenters Workshop Gallery è l’architetta, artista e designer americana Johanna Grawunder. È conosciuta soprattutto per le sue installazioni luminose, ma realizza anche tavoli e lavori su commissione. Ha perfezionato il suo talento collaborando con Ettore Sottsass per circa sedici anni e poi si è messa in proprio, partecipando nel 1995 al Salone del Mobile di Milano. «Ho usato la luce in un modo che non era mai stato proposto prima», dice. «Molto neon, molto plexiglas e fibra di vetro. Tutto provocatorio, un po’ sfrontato, non esattamente ciò che si definirebbe di buon gusto».
L’esperienza di Grawunder alle scuole superiori dice molto sul perché così tante donne abbiano dovuto aspettare a lungo un riconoscimento. Avrebbe voluto studiare disegno tecnico, una materia allora considerata adatta solo ai maschi. Riuscì a ottenere dal preside di poterla seguire a una condizione: che avrebbe imparato anche il cucito. Quella di Johanna Grawunder, però, è una storia positiva. Fa parte della schiera sempre più numerosa di donne che, incuranti di critiche e reazioni, creano qualcosa che richiede e ottiene attenzione, a prescindere dal genere.
(Il Sole 24 ore, 29 aprile 2021)