di Katia Ricci
La mostra di Clelia Mori, dedicata a Genoeffa Cocconi Cervi, ha come primo e immediato effetto quello di togliere questa donna dall’invisibilità a cui la narrazione della cultura patriarcale l’ha relegata; il secondo è quello di accendere una luce sulla relazione tra madre e figlio/a, sulla necessità di dare nuovo senso alla maternità. Senza di lei, senza il suo consenso dato per sette volte più tre (una figlia morta precocemente e due figlie), senza la madre di Genoeffa e la madre della madre nella lunga sequenza del continuum materno, non ci sarebbe stata la storia dei “sette fratelli Cervi”. E, dunque è da lei che bisogna cominciare, non dare per scontato il suo essere madre, considerandolo qualcosa di puramente fattuale. È questa l’operazione che Clelia Mori compie, conferendole una luce particolare, prima ancora di raccontare la vicenda di una donna, le sue azioni, le caratteristiche della sua persona, il contesto in cui ha vissuto e che ha contribuito a costruire. È Genoeffa una madre a cui sono stati uccisi contemporaneamente sette figli.
Inimmaginabile il dolore più grande che si possa provare moltiplicato per sette.
Nelle dieci carte di 1 metro x 1,50 su fondi colorati, tra cui l’oro per metterne in evidenza la preziosità, emerge il disegno a matita della donna a figura intera, un non-finito, tratta da una fotografia di Genoeffa seduta e circondata da tutta la sua numerosa famiglia, marito e figli, in parte seduti, in parte in piedi. Un’altra fotografia la ritrae a mezzobusto. In entrambe, le uniche pervenuteci, appare austera, frontale, immobile nel suo vestito nero, come era abitudine diffusa da Nord a Sud nel mondo contadino. Le carte hanno i segni di piegature come se l’artista le avesse trovate in un cassetto, quasi nascoste e le avesse dispiegate per dare finalmente a Genoeffa il posto che merita nella storia e darle il suo valore simbolico. Anche il non-finito contribuisce a conferire all’operazione il significato di ricerca del rimosso che ha colpito le donne, nel caso specifico Genoeffa, e farle esistere come soggetti sul palcoscenico della storia. Gli scarni documenti, le testimonianze del marito che le sopravvisse, tratteggiano la figura di una “resdora”, la reggitrice dell’azienda familiare, impegnata nel lavoro produttivo e riproduttivo, dedita non solo a fare e crescere figli, ma a occuparsi dell’economia e dell’organizzazione dell’impresa familiare, Tutto ruotava intorno a lei, centro e perno del suo mondo. Anche in un sistema patriarcale come il suo, Genoeffa viveva il suo essere donna e madre per affermare il senso di civiltà che metteva a disposizione della società umana. Per questo nel “resto del tempo” leggeva l’amata Bibbia e i classici della letteratura, insegnando ai figli, ai quali li leggeva insieme alle favole, la giustizia, la dignità, il valore di sé in rapporto agli altri e il prendersi cura del mondo. Tutte cose ritenute pericolose, anzi sovversive dell’ordine costituito in un periodo di totalitarismo, come è stato il fascismo.
La sua giornata era lunga e faticosa: infinite ed estenuanti operazioni la tenevano sveglia fino a notte, dalla cura dei figli, alla preparazione del cibo, all’allevamento del pollame, alla filatura e tessitura, alla confezione di abiti, come racconta il marito.
Ma non è su questi aspetti, pur fondamentali per la vita di quella comunità che si sofferma l’artista, quanto proprio sul valore intrinseco di essere donna. Clelia la disegna frontale, ieratica con appena una leggera increspatura all’angolo della bocca, un sorriso appena accennato per esprimere quasi la soddisfazione di quello che è e ha fatto. Un’icona bizantina, una sovrana. Nei disegni di proposito Clelia non fa riferimento ai figli perché è a lei che vuole restituire tutto il suo valore. La maternità per una donna è una possibilità, una scelta, non è un destino a cui non è possibile sottrarsi. Nell’Annunciazione, l’ultima parola è di Maria. È un momento quello prima di pronunciare il suo sì in cui è sospesa la salvezza del mondo.
Genoeffa ha cercato di rendere migliore il suo mondo, ma il suo cuore ha ceduto di fronte all’insensatezza crudele e alla violenza dei fascisti che, dopo averle ucciso i figli, imprigionato il marito, avevano distrutto nuovamente la casa che con Alcide, una volta liberato, e tutti i nipoti era riuscita a ricostruire. Genoeffa non ha retto di fronte all’ingiustizia e ai soprusi, lei che si ribellava all’obbligo per le donne dei mezzadri di fare il bucato per il padrone, che protestava perché il padrone non riparava il tetto della sua camera, che si batteva perché fossero aboliti i confini dei campi in modo che ognuno potesse prendere dalla terra che coltivava quanto serviva al proprio sostentamento. Una figura di donna, quella che tratteggia Clelia, animata dallo stesso amore per la giustizia, la solidarietà e la libertà per il quale ancora oggi nel mondo si battono tante donne mettendo a rischio la propria vita.
(DeA – Donne e Altri, 23 aprile 2023)