di Valeria Palumbo
Guardano in «macchina», le pittrici e le fotografe che si ritraggono. Perfino, come fa coraggiosamente Paula Modersohn Becker nel 1906, quando si ritraggono nude e non belle o anziane. Impietose, direbbe qualcuno che ritiene che le donne, come ci si ostina a credere per la Contessa di Castiglione, si facciano ritrarre o si ritraggano soltanto per offrirsi a uno sguardo compiaciuto. Non necessariamente maschile, ma altrui. Che l’unico scopo del loro «mettersi in posa» sia il farsi guardare e ammirare. Passive. Perfino nella seduzione. Ribalta quest’ottica una bella mostra aperta fino al 2 gennaio alla Fondazione Beyeler a Riehen, appena fuori Basilea in Svizzera. Si intitola Close up [da vicino, n.d.r.] e raccoglie le opere di nove artiste, in particolare i loro autoritratti, tra Ottocento e giorni nostri. Non a caso, nel recensire la mostra, il celeberrimo quotidiano svizzero Neue Zürcher Zeitung o Nzz mette in apertura proprio l’autoritratto di Modersohn-Becker: un capolavoro di ironia. Superato solo dal sarcasmo di Frida Kahlo. Per inciso Paula Modersohn-Becker, esponente di punta del primo Espressionismo, in 31 anni di vita e 14 di attività, realizzò 750 dipinti e mille disegni. Morì per le complicazioni del parto, dopo aver dato alla luce la prima figlia, Mathilde. In un’illuminante lettera del 17 febbraio 1906 al poeta Rainer Maria Rilke, oggi ben più famoso di lei e piuttosto bizzarro (già celebre per il triangolo con Lou Andreas-Salomé, si innamorò di Paula al primo incontro, ma poiché lei si era appena fidanzata, sposò, brevemente, la sua migliore amica, la scultrice Clara Westhoff), Paula scrisse: «Io sono io, e spero di diventarlo sempre di più, Ich bin ich, und hoffe es immer mehr zu werden».
Problemi di identità
Non che gli artisti uomini non abbiano mai avuto problemi di identità. Anzi. Il punto è che alle donne, sempre, anche quando avevano idee chiarissime su chi fossero, qualcuno ha cercato di spiegarlo. Meglio, di imporlo. E guarda caso erano identità piccole piccole, ben calibrate sui desideri, le esigenze, le paure e, a volte, le perversioni dei maschi. Perfino sulle loro idealizzazioni: e in questo caso le identità, più che piccole, risultavano poco adatte a un essere umano, tra muse angelicate, madri-martiri, belles dames sans merci e mogli kamikaze. In questa costruzione di identità altrui, le arti visive hanno svolto un ruolo fondamentale (e continuano a svolgerlo, cinema in testa). Eppure, è proprio nella pittura e nella fotografia che le artiste hanno avvertito da subito che no: così non era. Loro non si vedevano, e non volevano essere viste, come gli altri le disegnavano. Hanno cominciato le pittrici del Rinascimento, Sofonisba Anguissola e Artemisia Gentileschi in testa. Una con l’autoritratto più fiero, sereno e severo di donna che il Cinquecento ricordi. L’altra con quella sua esuberanza quasi ingombrante (come Allegoria della pittura), che così bene sintetizza un secolo complicato come il Seicento. E hanno proseguito le altre: dalla francese Elisabeth Vigée Lebrun che si ritrae in mille modi, pittrice, madre autonoma ed erede di Rubens, alla britannica Elizabeth Siddal, che il marito, Dante Gabriele Rossetti, chiude nello stereotipo della vergine sognante, spaventata e anche stordita di droga. E che invece si auto-ritraeva triste e anche piuttosto arrabbiata.
Vittime dei pregiudizi
Nella mostra di Basilea, Close Up, il racconto comincia con le impressioniste. In particolare Berthe Morisot e Mary Cassatt, vittime entrambe non solo dei pregiudizi di un’epoca tanto pruriginosa e severa con le donne libere, quanto (ancora oggi) scandalosamente deliziata dagli eccessi maschili. Alle pittrici non era concesso riprendere modelli dal vero. Neanche un braccio nudo di maschio. Nemmeno mucche all’aperto, se è per questo: mica se ne potevano andare in giro da sole. Se poi, come Victorine de Meurent (celebre soprattutto come la “scandalosa” modella nuda di Edgar Degas), si prostituivano pur di continuare a dipingere, perché per loro non c’era mercato, affari loro. Neanche le accademie d’arte le volevano. E così Morisot, che pure viveva tra amici pittori tanto trasgressivi e all’avanguardia, scriveva sul suo Carnet, nel 1891: «Non credo che sia mai esistito un uomo che abbia trattato una donna da pari a pari, eppure è tutto quello che avrei voluto, perché so di valere, Je ne crois pas qu’il y ait jamais eu un homme traitant une femme d’égal à égal, et c’est tout ce que j’aurais demandé, car je sais que je les vaux».
Il dipinto di Marie Bashkirtseff
Non a caso la mostra alla Fondazione Beyeler termina con un magnifico dipinto dell’ucraina Marie Bashkirtseff (ma perché a scuola non abbiamo studiato neanche lei?), L’Académie Julian, del 1881, in cui un gruppo di sole pittrici ritrae un San Giovannino nudo che guarda perplesso verso la “macchina”. E ovviamente a nessuno può sfuggire l’ironia della scelta: San Giovanni è quello che ne disse tante contro la povera Erodiade che, grazie ai desideri espressi dalla figlia di lei, Salomé, dopo una celebre danza, si ritrovò senza testa. Osservatelo con attenzione quel quadro, se vi capita. Perché siamo talmente abituati a osservare scene in cui tutti gli artisti (magistrati, medici, scienziati, etc.) sono maschi vestiti e le donne, se ci sono, se ne stanno lì come agnellini sacrificali, o abbassando pudicamente lo sguardo oppure offrendosi esplicitamente, che vedere un luogo in cui contano solo le donne e l’unico uomo è l’agnellino di turno, ci crea ancora un certo disorientamento. Scriveva Marie nel suo Journal, il 1° maggio 1884: «Se non muoio giovane, spero di rimanere nella memoria come una grande artista; ma se muoio giovane, voglio far pubblicare il mio diario perché non può essere altro che interessante».
Sapere di valere
Ecco, qui la consapevolezza è piena: so chi sono. E so di valere. Magari ci rido su. È quello che fanno quasi tutte le artiste di Close Up, da Frida Kahlo, appunto, alla nostra contemporanea Cindy Sherman, con i suoi “finti” autoritratti che smontano gli stereotipi femminili. Non solo sanno di valere, ma sono appunto pronte a rovesciare lo sguardo. Non a farsi guardare. Ma a guardare e, in caso, a giudicare. A riscrivere la storia: Frida Kahlo ricostruisce il suo albero genealogico, con sua madre vestita di bianco ma con il suo feto già in pancia e il cordone ombelicale in vista, che porta dritto a lei. Non a un maschio. Ma a lei, Frida. Non credete che sia una banalità: nello scrivere il mio ultimo libro, sulla Contessa di Castiglione, avevo immaginato di inserire qualche albero genealogico seguendo le linee femminili per mostrare anche quanti figli naturali girassero nell’aristocrazia. Mi sono trovata davanti le solite linee di successione: nonno-padre-figlio. Fuori le donne e i “bastardi”.
La pittrice e il suo modello
La bravissima pittrice Lotte Laserstein (di nuovo: ho fatto le scuole sbagliate io? Perché non la ricordo mai citata), una “Neue Frau”, una donna emancipata, pure ebrea, che dovette rifugiarsi in Svezia per sfuggire al nazismo ma visse abbastanza per avere ragione (1898-1993), non solo si ritrasse con i capelli corti e modi “androgini”, come si continua a scrivere. Ma nel 1929-1930 intitolò un quadro: Ich und mein Modell, Io e il mio modello. Lei è la pittrice, più matura, ovviamente vestita e guarda, ancora una volta, davanti a sé. Lui è giovane, seminudo e la osserva con deferenza. Ruoli invertiti. Ci appaiono ancora irritanti? Pensate come apparissero due secoli fa, quando la Contessa di Castiglione si faceva fotografare i polpacci e i piedi nudi, gonfi. Si gridava alla follia: è pazza. Lo si dice ancora adesso. È pazza perché solo all’apparenza si sta facendo guardare. In realtà guarda. E giudica. E ironizza. E non ha paura. Lo ricordassero ogni tanto anche le ragazze che ammiccano dai selfie, saremmo a cavallo.
(27esimaora, 19 dicembre 2021)