di Dario Borso
Sociologicamente parlando, Yvonne De Rosa è uno dei tanti cervelli in fuga dall’Italia: napoletana classe 1975, appena laureatasi cum laude in Scienze politiche (tesi in Storia delle Istituzioni sulle procedure del Tribunale della Santa Inquisizione) emigrò a Londra.
Da sempre appassionata di fotografia, il suo viaggio di sola andata era a scopo: iscriversi a un corso triennale post-laurea del Central Saint Martins College of Art & Design, prestigiosa scuola pubblica del Regno Unito.
Da qui in poi la sua storia è personale: nel 2004 fonda con altri 23 postgraduate del SMC il gruppo 24, finalizzato a un progetto tuttora in corso: documentare per 24 anni il capodanno assegnando a ciascun membro un’ora delle 24 ed esporre annualmente in luoghi pubblici (Soho Square il marzo scorso, http://www.24photography.org/).
Il primo lavoro importante di De Rosa è del 2006, per la Cynthia Corbett Gallery: Contacts, provini a contatto in bianco e nero sui contatti umani (prove di contatto, dunque). Virgilio in gonnella, la fotografa ci accompagna in diversi gironi purgatoriali di storie-sequenza, lasciando a noi di dare un senso al coacervo di posture del corpo, di espressioni facciali, di oggetti inanimati, di post-it ecc. entro cui passa una comunicazione muta, un contatto arduo ma cercato dai soggetti ritratti.
Per Contacts De Rosa ottiene l’International Women Photographers Award, e l’anno dopo pubblica il suo primo libro Crazy God, Damiani ed. (premio speciale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e primo premio al Lucie International Photography Awards).
Da universitaria aveva fatto tre anni di volontariato presso un ospedale psichiatrico, e in uno dei suoi rientri a Napoli lo trovò dismesso: forzando l’entrata, si mise a fotografare. La sua ricognizione riguarda dunque unicamente gli oggetti abbandonati e i graffiti sui muri (uno recita appunto “dio pazzo”, da cui il titolo), testimonianze di sofferenza che nel degrado circostante assumono un’aura recondita, quasi divinatoria, empaticamente colta dalle foto a colori.
Se vogliamo, l’esatto opposto di Lu Nan, il cui Inferno in bianco e nero sui manicomi cinesi (lo si vedrà il 6 giugno a http://www.frigoriferimilanesi.it/it/archivio/eve/335-cineserie/) sottolinea la presenza violenta del regime carcerario, del suo dominio sui corpi. Piuttosto, c’è in Crazy God un’eco del mediometraggio L’osservatorio nucleare del sig. Nanof, girato da Studio Azzurro nel 1985 nel dismesso ospedale psichiatrico di Volterra; ma soprattutto forte è la consonanza con Adilia Pintilie, la regista di Touch me not (film sulle dinamiche psicologiche del contatto fisico vincitore dell’ultimo Orso d’oro berlinese) che proprio nel 2007 girò Don’t get me wrong https://www.youtube.com/watch?v=DgVnSwdrw9g&t=793s all’interno di un manicomio romeno.
Crazy God contiene la breve “storia vera” di un recluso nel manicomio in questione scritta da Sarah Emily Miano, la quale aveva esordito da poco in USA con Encyclopaedia of Snow, fictionale diario anonimo che tratta di neve ai più vari livelli, tutti convergenti infine su una storia d’amore infelice di cui il diario stesso è l’ultimo episodio in forma d lettera senza risposta.
L’opera prima della Miano era dedicata a W. G. Sebald, e l’artista inglese Sophie Arkette recensendo Crazy God su Studio International ha fatto un acuto rimando a Gli emigrati, dove Sebald tratteggia un vecchio psichiatra che vede polverizzarsi poco a poco il suo ex-manicomio costruito in legno. La luce naturale di De Rosa ricorda appunto quel pulviscolo, ma il suo sguardo è differente, va dalla non-vita dei reperti alla nuda vita dei loro proprietari, contrariamente allo sguardo di Sebald che coincide con quello pentito dello psichiatra.
La tonalità dell’approccio di De Rosa assona piuttosto con il Čechov de La corsia numero 6, e coincide addirittura con quella di un altro espatriato, Luigi Meneghello, che mezzo secolo prima aveva abbandonato Malo per Reading sul Tamigi. Il recupero dei frammenti linguistici (v. ad es. Maredé, maredé. Sondaggi nel campo della volgare eloquenza vicentina), il tatto amorevole con cui Meneghello l’ha condotto, è universalmente noto. Ma qui mi riferisco a un testo quasi inedito siccome orale, dov’egli ritrova la sua stessa passione rabdomantica di redentore del morto in un fratello, il ceramista Alessio Tasca che da una fossa di cocci ha saputo recuperare addirittura un mondo: Rivarotta https://www.youtube.com/watch?v=HExvRSbCw1A.
Nella pagina introduttiva a Crazy God, Laura Noble (su cui v. https://en.wikipedia.org/wiki/Laura_Noble) sottolinea la presenza nei manicomi di orfani, poveri e ragazze-madri, che non avevano problemi di salute mentale prima di venire rinchiusi. È un’indicazione che per De Rosa, la quale nel frattempo ha collezionato un master in fotogiornalismo alla London College of Communication, si trasforma in un nuovo progetto. Secondo le sue parole: “Quando Mark Cook, il fondatore di Hope and Homes for Children, mi ha fatto incontrare le persone con cui lavorava, sono rimasta molto colpita. Il loro indirizzo etico – supportare le famiglie in gravi difficoltà evitando ai bambini di finire abbandonati in istituti e chiudere istituti permettendo ai bambini di crescere in famiglie – è qualcosa che condivido con tutto il cuore. Io stessa credo nell’importanza della famiglia unita nel costruire una vita sana e felice”.
Da qui nasce il secondo libro di De Rosa, Hidden Identities. Unfinished, Damiani ed. 2013 (qualcosa qui http://www.bbc.com/news/in-pictures-23239363), sugli orfani in Romania e in Bosnia-Erzegovina, paesi dove più volte già era stata. Come scrive nell’introduzione: “Benché si possa dire che la povertà significa privare qualcuno della possibilità di sviluppare la propria identità, in realtà non ho visto questo. Ogni volta che puntavo la mia vecchia Rolleiflex verso i miei soggetti, mi si rivelava una grande dimostrazione di coraggio e di carattere. Indipendentemente dal paese da cui veniamo, siamo tutti connessi da uno stretto legame in quanto razza umana, e dovremmo preoccuparci della qualità e delle condizioni di vita che non sono equamente distribuite sul nostro pianeta”.
E le fa eco Cook: “Ringrazio sinceramente De Rosa per l’enorme quantità di tempo, pensiero e amore che ha messo in questo libro, e per la sua decisione di donare l’intero ricavo dalle vendite a HHC. Spero che le persone saranno così toccate dal potente messaggio che invia, da sentirsi anche loro in dovere di fare tutto il possibile per aiutare questi bambini”.
La mission della ong HHC è “trasformare gli orfani da ‘identità nascoste’ a persone riconosciute”. È il movimento che ormai conosciamo: dall’oblio al ricordo, dal passato al futuro, dalla nuda vita alla vita. Un movimento di resistenza e di speranza quindi, come tale unfinished. Perciò De Rosa torna in patria, nella Terra dei fuochi, per realizzare un progetto annunciato a Parigi nel 2015 alla mostra collettiva Climat Smart Evolution nell’ambito della Cop21 e presentato l’anno dopo alla Commissione per i diritti umani del Parlamento europeo. Il nome del progetto è Waste Side Story, crasi di Waste Land, la terra desolata di Eliot, e il musical West Side Story, storia di un riscatto in extremis.
Aspettando gli esiti, chi vuole può attivarsi intanto con Hotel House http://www.intertwine.it/it/incipit/collaborate/xNB7sNUq/h-h-this-is-not-the-truth, ulteriore progetto della tenace fotografa che, affiancata dallo scrittore Athos Zontini, ha appena chiamato in rete a un esercizio di scrittura collettiva, riproponendo l’intreccio tra fotografia e narrazione da cui era partita con Contacts.
(www.libreriadelledonne.it, 10 maggio 2018)