26 Marzo 2018

Pina Nuzzo,

dal 13 aprile al 3 maggio 2018

Senza telaio, senza cornice.

associazione Apriti Cielo!  via Spallanzani 16- 20129 Milano

La mostra resta aperta sino al 3 maggio con i seguenti orari:

mercoledì, venerdì, sabato dalle 18,20 alle 20,00 oppure su appuntamento

telefonando al 349868253

http://www.apriti-cielo.it/senza-telaio-senza-cornice/

Marisa Forcina

La gioia, diceva Simone Weil, non è altro che il sentimento della realtà. Accade spesso ascoltando Pina Nuzzo in pubblico, in una riunione politica, di politica delle donne o in colloquio più o meno privato, di provare gioia. E questo accade non perché Pina sia una persona accogliente, bonaria e indulgente; è esattamente il contrario: rigorosa, spiazzante, dura a volte. Ma reale. La stessa cosa accade anche dopo aver visto i suoi quadri che, a un primo sguardo, diresti inquietanti, ma che dopo avverti con gioia, perché rappresentano, ossia rendono presente, il suo sentimento della realtà. E avverti, ripensandoci, che è anche il tuo senso del reale, e che puoi condividerlo: e questo dà gioia. Non accade solo a me che, come si dice, conosco Pina da una vita. Le sue parole, come il suo dipingere, come il suo vestire persino, aderiscono al reale; non hanno paura di essere controcorrente o contro ciò che viene sbandierato come più innovativo o più alla moda e spesso chiamato rivoluzionario o più impegnato, ma è solo copia, serialità senza pensiero di sé. Per Pina, invece, si tratta di saper trovare la misura tra novità e autenticità. E l’unità di misura, il suo metro personale è se stessa e la sua storia. Per lei la giusta misura da usare, mostrare e rappresentare è il suo habitus: l’aspetto del suo corpo che, ovviamente, non è solo materia, ma è pensiero, sapere, storia e intelligente capacità di giudizio, che si esprimono nella pienezza della realtà che lei è, e alla quale sa aderire senza finzioni. Ha imparato a partire, infatti, dalla misura di sé per poter avere misura della realtà senza maschere e senza simulazioni. Questa sua adesione al reale, dopo un primo spaesamento, provoca gioia; è la gioia di riconoscere un sentimento di confidenza con la realtà: quello che i filosofi hanno chiamato incontro con l’essere, che le mistiche avevano chiamato incontro con dio, e che il femminismo radicale ha chiamato autocoscienza. L’incontro con l’essere, con la coscienza di sé, è unione di immanenza e trascendenza, di processi oggettivi e oggettivanti e, contemporaneamente, però, è anche incontro con qualcosa che trascende, che è oltre la nostra capacità di ridurre tutta la realtà a cose e a merci e a mercato.

E’ un incontro che dà gioia, perché ci riconcilia con la realtà; in questo caso semplicemente rendendocela presente, rappresentandocela e rendendo presente anche la realtà che è dietro le cose e gli oggetti che noi siamo, sempre pronti a consumare e gettare via ciò che abbiamo riconosciuto o acquistato con sempre maggiore rapidità e inconsapevolezza. I quadri di Pina Nuzzo, invece, non sono oggetti di un’estetica da consumo.

Sono quadri che restano.

Sempre senza cornici, ossia volutamente senza contorni e bordi, dicono del suo non volere aggiungere limiti e margini voluti, previsti e prefabbricati da altri.

Senza cornice: rappresentazione anche questa del proprio libero sentire, della libertà di Pina di essere se stessa. Senza cornici, volutamente, perché Pina vuole narrare di un reale che va oltre, sconfina ogni nostra capacità di ripetizione o di rappresentazione.

Sempre più grandi. Ora i suoi quadri sono anche senza telai e intelaiature, perché l’artista cerca di dire con voce propria ciò che ancora non è stato intelaiato in un ordine simbolico, in quello che ci dice e ci determina precostituendoci ad essere in un modo già determinato. Ma non c’è nulla di presuntuosamente egoico in questo suo desiderio di rappresentazione del proprio sentire. Al contrario, si tratta di un severo addestramento che ha saputo cogliere il meglio di quella intensa scuola di formazione politica che per lei è stato il femminismo.

Nel 2006, a Lecce, nella sua relazione tenuta alla Scuola Estiva della Differenza diceva: “Mi era – mi è – necessaria la politica delle donne perché è lo spazio simbolico in cui riesco a pensarmi e a rappresentarmi”.

Ma tale politica non è stato oggetto da riprodurre o narrare. E’ stato percorso, lunga strada e addestramento lento per capire ed esprimere un iter, per osare un fare e un comprendere autentico. Il femminismo è stato occasione per poter andare a ritroso attraversando le generazioni e giungere ai confini di quell’ordine simbolico patriarcale che ha intriso tutto di sé, facendo perdere a molte donne anche le tracce di un capire ed esprimere la potenza e l’autenticità del proprio reale sentire.

Stupore, è una grande pittura su tela di 3 metri per 2, dove il sentimento di meraviglia con cui la filosofia da Platone e Aristotele in poi ha celebrato il proprio inizio, ridiventa stupore ed è rappresentato con corpo di donna. Il principio del sapere, inteso come avvio e come fondamento, per Pina Nuzzo è il rosso del ventre gravido, è quel rosso che torna insistente nei suoi quadri come deposito e scorta di colore a cui attingere sempre. E’ il rosso della terra salentina, il rosso del sangue delle sue donne che hanno partorito con dolore sempre nuove generazioni esposte ad antiche sofferenze, è il rosso della fatica che stanca e arrossa gli occhi persino, è il rosso che tinge le guance per soprusi ingoiati interi e violenze subite senza parole.

Perché la violenza è muta, ma ha il colore del sangue. Stupore ha la testa della nottola di Minerva che, come nei Lineamenti della Filosofia del diritto di Hegel, “spicca il suo volo sul far della sera”: metafora di un sapere che prende il volo quando una civiltà è ormai al declino. Ma la testa di civetta di Stupore, non è solo citazione di altre immagini dotte o di filosofiche letture, è principio che narra un’origine e una terra e, come non è risposta e corrispondenza alla moda, non è nemmeno rapace animale. E’ piuttosto richiamo di sapienza, icona di antica dea protettrice delle donne che abitano una terra dove sino a qualche anno fa ancora si parlava il greco classico. Minerva, protettrice di Galatina, salvò le sue cittadine dal morso della taranta, rendendole per secoli immuni; le salvò non solo dal morso, ma anche dalla ripetizione di quel morso come forma di ri-morso, ossia come morso ripetuto che ri-tornava ad aggredire quelle donne che osavano dire di sé e agire di conseguenza nella libertà di una nuova narrazione di sé. Il morso e il suo ritorno, il rimorso, condannò le donne delle terre del sud, ma non quelle di Galatina, all’azione insignificante e alla introiezione della colpa nell’attesa di una liberazione che tornava puntuale allo spuntar dell’estate e alla sua festa di fine giugno. Il quadro di Pina rompe con secoli di tradizioni narrate in identico modo e libera verso una nuova nascita non ancora compiuta, non ancora sottoposta a identità e appartenenze, eppure già pienamente vissuta nella carne.

Allo stesso modo Prima e Dopo , altra tela di 3 metri per 2, restituisce il sentimento della realtà alla terra, la stessa terra venata di strisce di sangue e di luce di amniotiche acque, ma soprattutto luogo accogliente di germogli di erba, fili di identità tutti uguali eppure tutti differenti, che fanno da contorno eccentrico al profilo mandorlato che raccoglie l’occhio assoluto, che potrebbe essere l’occhio di dio o la rappresentazione della sessualità femminile, ma che è, questa volta sì, anche citazione dotta di un ricordo d’infanzia, il ricordo dorato delle cornici mandorlate che racchiudono l’immagine della madre di dio, negli affreschi quattrocenteschi della Chiesa di Santa Caterina di Alessandria in Galatina, la città dove Pina ha vissuto la sua infanzia.

Ma il sentimento della realtà che Pina Nuzzo porta con sé e che riporta a noi va anche oltre la rappresentazione, perché sa anche restituire dignità e vita e esistenza ad antichi saperi, a fili che, intrecciati da mani sapienti, diventavano rosoni fragili e pregiati, capaci sempre di proteggere anche i legni più duri come quelli di antiche mobilie e che, ora, grazie alla sua arte, mettono le ali per volare oltre. Mostrano la luce che ancora passa tra i fili annodati, come passano i ricordi di trame preziose e di femminili saperi ricamati ad ago, ma senza ostentazione della propria ricchezza, perché sempre pronti a sfilarsi e a distruggersi a causa di un solo filo tirato via. Come la vita, che è sempre appesa a un filo e pronta a sfilarsi via con un niente di forza.

Un’arte quella di Pina Nuzzo che più che costruire affreschi di un linguaggio già detto, sa riflettere su una dimensione intima e quotidiana, per restituirle realtà, esistenza e dignità, ancorandosi ad antichi saperi e trovando pennellate di colore, che però è soprattutto materia, magari semplice carta bianca che nelle sue mani diventa sempre capace di sprigionare luce, diventare colore per poi tornare ad attendere di essere letta e scritta con altre mani di altre generazioni di donne per sempre nuove scoperte interiori.

 

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