Arianna Di Genova
La storia di abuso scelta da Loredana Longo è quella delle operaie morte bruciate in fabbrica.
Splende il sole nonostante le previsioni meteo catastrofiche, ma appena varcata la soglia di Palazzo Massari a Ferrara, si dimentica la luce e l’atmosfera si fa carica di tensione. Molti visitatori scelgono il silenzio e nella grande stanza centrale il vocìo si attenua fino a scomparire. Violence, l’arte interpreta la violenza, tema della XV Biennale Donna, organizzata dall’Udi e curata da Lola Bonora e Silvia Cirelli, ha selezionato i lavori di sette artiste (visibili fino al 10 giugno) per raccontare la brutalità nascosta fra le pieghe di molte democrazie, occidentali e non. Una brutalità che è globale, trasversale, assoluta, proprio come i mercati finanziari che tutto mettono in ginocchio. È un argomento spinoso che facilmente può scivolare in una retorica astratta, ma ci pensano le opere a creare la giusta drammaturgia. Esistono infatti molte tipologie di violenza – fisica, sessuale, psicologica, sociale, economica – e l’assoggettamento segue spesso strade perverse. Le artiste invitate lo sanno e provano a imbastire un discorso, pur nella riluttanza a fornire giudizi, ad aprire un dialogo con chi guarda.
Così, in mezzo alla prima sala, una specie di armatura da guerra «rivisitata» con toni da lingerie, pende dal soffitto appesa a un filo: Naiza H. Khan, pakistana, sfrutta il linguaggio bruciante dell’ironia per «mimare» le condizioni delle donne del suo paese. Come un tempo i rigidi corsetti, ora è il duro acciaio (magari insieme a frivole piume) a imprigionare le forme del corpo, a inventare un esercito di fantasmi in cui l’assenza fisica denuncia l’invisibilità politica di quei corpi, l’afasia – anche gestuale – cui costringe il potere. Ognuna ha la sua gabbia, letteralmente, «cucita» addosso.
Poco oltre, si finisce in una stanza dove ancora una volta è la «mancanza del soggetto» a provocare inquietudine e a urticare la coscienza. Si è invitati a calpestare un pavimento costituito da pezzi di stoffa, abiti bruciati, incastonati nel cemento. L’installazione della siciliana Loredana Longo ha una data e un luogo preciso a cui fa riferimento: 25 marzo 1911, New York, fabbrica Triangle. Qui persero la vita 146 persone a causa di un incendio. Molte erano operaie italiane e dell’est Europa e non ebbero scampo poiché i padroni le avevano chiuse a chiave per evitare che si prendessero troppe «pause» e rallentassero la produzione.
Longo (classe 1967, Catania) chiede a tutti di camminarci sopra a quei «miseri resti». Fa impressione, sembra quasi un atto sacrilego, ma nessuno si tira indietro. «Il cemento ha un valore particolare per me che sono siciliana. È il materiale con cui si è arricchita la mafia, quello che ha distrutto il paesaggio italiano ed è lo stesso dentro il quale si fa sparire chi è diventato scomodo…», spiega l’artista.In un altro «floor», aveva intrappolato scampoli di bandiera italiana, mentre in alcune installazioni aveva «imbandito» interi set domestici che poi faceva esplodere d’improvviso, salvo poi ricostruirli minuziosamente, come se si potesse salvare una normalità di coppia, famigliare, sociale dopo una lacerazione. Strappi, tagli di vestiti fino alla nudità è ciò che propone Yoko Ono nel suo celebre video Cut Piece del 1965 (poi reiterpretato nel 2003): ogni spettatore deve salire sul palcoscenico dove l’artista lo aspetta immobile e sferrare il suo colpo di forbice per ridurre in brandelli l’abito fino al raggiungimento della vulnerabilità totale.
La guatemalteca Regina José Galindo, che da anni mette in scena le atrocità che subiscono le donne sul loro corpo, infliggendosele in prima persona, ha portato in mostra il suo El dolor en un pañuelo: «Mentre sono legata a un letto verticale, su di me vengono proiettate le notizie di violazioni e abusi commessi contro le donne in Guatemala». E la sua opera «vive» in un gioco di rimandi con quella dell’olandese Lydia Schouten, una sorta di camera delle torture (visive), perturbante e ansiogena. L’artista parla di un’arte nata da fatti autobiografici e qui la cornologia va a ritroso, riconducendola verso il suo soggiorno newyorkese alla fine degli anni Ottanta, quando il virus della violenza era pervasivo.
Il contagio si espande a macchia d’olio e proprio nell’olio esausto viene a radicarsi l’anti-monumento alla violenza dell’austriaca Valie Export: una piramide di kalashnikov di quattro metri si staglia nel vuoto mentre intorno scorrono video di barbarie: esecuzioni capitali e attacchi militari in Iraq. Chiude questo percorso di amara antropologia l’americana Nancy Spero, scomparsa a 83 anni tre anni fa: teste mozzate per non dimenticare l’orrore di Guantanamo o Abu Ghraib, deformanti «esportazioni» di democrazie.