Pace,amore e…
“Auguro amore e felicità per tutti.” E ancora: “Vorrei aver viaggiato di più.” Ma anche un prosaico: “Spero che la Spagna vinca gli Europei del 2012”. Sono solo alcune delle migliaia di bigliettini appesi ai rami di “Wish Tree for London”. È l’apertura della grande mostra che la Serpentine Gallery dedica, fino al 9 settembre, all’artista giapponese.
Nata a Tokio nel 1933, la giovane Yoko inizia una nuova vita quando, dopo la Guerra, la sua famiglia si trasferisce a New York. Qui entra in contatto con l’avanguardia artistica che ruota attorno al compositore John Cage e con Fluxus, il movimento artistico formato da artisti, musicisti, architetti, compositori e designer fondato da George Maciunas all’inizio degli Anni Sessanta. Fluxus sostiene che l’arte è effimera e anonima e non si può identificare con istituzioni tradizionali come musei e gallerie e con concetti prestabiliti come quello di stile.
Affascinante quanto improbabile, l’idea di affidare all’osservatore il controllo dell’opera d’arte seduce la Ono, che la fa sua. E basta aggirarsi per gli spazi della Serpentine per realizzare quanto la sua arte sia immaginazione. Helmets (Pieces of Sky) è un’installazione fatta di elmetti capovolti sospesi dal soffitto. In ogni elmo i pezzi blu di un puzzle che, se completato, restituisce l’immagine del cielo. Ogni elmo è il volto di un soldato ucciso – gli occhi spalancati, il viso rivolto verso l’alto. “War is Over”, dichiara il poster sulla parete vicina. “If You Want It”, sussurra la voce di perenne speranza della Ono nella frase sottostante, scritta a caratteri così piccoli da essere a malapena leggibili. Per lei, sopravvissuta per miracolo al bombardamento della capitale giapponese durante la Seconda guerra mondiale, la pace è un dovere morale. Non a caso dagli Anni Sessanta è attivamente impegnata in favore del pacifismo e del rispetto dei diritti umani.
Dalle pareti bianche della Serpentine, numerosi video e i film sperimentali si contendono l’attenzione dello spettatore: John Lennon che sorride al rallentatore, John e Yoko che si baciano e che invitano a dare alla pace una speranza. Sono però le due versioni di Cut Piece il vero punto di forza della mostra. In entrambi i filmati l’artista siede impassibile mentre gli spettatori, armati di forbici, salgono sul palco e fanno a pezzi i suoi abiti. Ma se, nella versione del 1964, il gesto fatto su una giovane donna ancora ignara di quello che il futuro le avrebbe riservato ha la violenza simbolica di uno stupro, in quella del 2003 la violenza del gesto assume un nuovo significato, diventa autobiografia: la performance è diventata la vita.
Amaze (1971/2012) è un labirinto di plexiglas trasparente posto al centro di una stanza che conduce a una scatola nera colma d’acqua. Come l’altra grande giapponese Yayoi Kusama, anche Yoko Ono ama giocare con lo spazio. Uno spazio in cui lo spettatore può muoversi, camminare e perdersi nella contemplazione di se stesso. Trovare l’uscita è più difficile del previsto. D’altronde, nessun viaggio alla ricerca di se stessi è facile.
Fragili oggetti adagiati su piedistalli trasparenti galleggiano nel bianco totale dello spazio circostante: quella della Ono è un’estetica dai toni semplici che ha la delicatezza e la brevità di una poesia giapponese. Come l’haiku elimina ciò che del lessico non è necessario, l’arte della Ono richiede la stessa sintesi di pensiero. Ma a volte concettuale a volte fa rima con banale e neanche l’artista è immune da cadute di stile, soprattutto quando si sforza a tutti i costi di essere profonda.
Il suo lavoro mette artisti come Damien Hirst in prospettiva, dimostrando che ancora oggi l’arte può ancora rappresentare qualcosa di più di un mero prodotto economico. A ottant’anni suonati, Yoko Ono mostra che per l’arte ci sono ancora delle possibilità.
Paola Cacciari