il manifesto
- 02 agosto 2001
Il
fantasma dell'unità nazionale
IDA
DOMINIJANNI
"Anni
fa un ministro dell'interno sgombrò Bologna con i carri cingolati
dell'Arma dei carabinieri, e nessuno ne chiese le dimissioni. Anni fa
in un violento attacco a reparti di carabinieri cadde un giovane autonomo,
e nessuno chiese le dimissioni del ministro. Anni fa in eventi ancora
oscuri Giorgina (sic) Masi cadde dall'altra parte di un ponte, e nessuno
chiese le dimissioni del ministro. Perfino quando fu ucciso Aldo Moro,
nessuno chiese le dimissioni del ministro, e quando questi fece sapere
a Botteghe oscure che intendeva dimettersi, gli fu chiesto di non farlo".
Chissà quanti dei ragazzi che erano a Genova a manifestare conoscono
questi tre episodi della vita nazionale, di cui l'allora ministro degli
interni Francesco Cossiga si serve, nel suo intervento contro la sfiducia
all'attuale ministro Scajola, per richiamare l'opposizione al comandamento
della politica di unità nazionale, quella che vigeva allora e che
oggi, in tempi bipolari, dovrebbe essere bandita e invece incombe come
un fantasma sulla scena politica. Italia 1977, marzo, Bologna, blindati
dell'Arma sugli scontri all'università fra ciellini e autonomi,
carica sugli studenti, morte del militante di Lotta continua Francesco
Lo Russo. Maggio, Roma, manifestazione dei radicali con presenza massiccia
delle forze dell'ordine, scontri, cariche, morte di Giorgiana Masi a Ponte
Garibaldi. 1978, maggio, Roma, ritrovamento del cadavere di Aldo Moro
rapito in marzo dalle Brigate rosse, offerta di dimissioni da parte di
Cossiga, invito del Pci a restare in carica. Che c'entrano, questi fatti
lontani, con Genova e il dopo-Genova? Niente, e tutto. Perché i
remoti anni '70 rispuntano dal rimosso ogni volta che torna all'orizzonte
il conflitto sociale. Perché il governo di Berlusconi e Fini sta
facendo di tutto per costruire attorno ai fatti di Genova lo stesso ordine
del discorso di allora sulla violenza di piazza che giustifica qualunque
eccesso repressivo. E perché non solo il centrodestra vorrebbe
inchiodare il centrosinistra a una comune "cultura di governo"
in materia di ordine pubblico, ma lo stesso centrosinistra non è
affatto vaccinato, in larghi settori, da questo richiamo della foresta.
Come sempre lucido nella sua follia picconatrice, Cossiga lo sa e sferra
il suo attacco contro la mozione dell'opposizione che osa chiedere le
dimissioni del ministro degli interni. E scaltramente non si limita a
questo. Sottolinea che lui è lì a votare non solo per Scajola,
ma soprattutto per le forze dell'ordine, "colpevoli al massimo di
eccessi di reazione alle aggressioni subite", e per i loro "esemplari"
vertici (li nomina uno a uno, da De Gennaro a Rolando Mosca Moschini che
"si scrive Mosca e si legge Visco") scelti dal governo di centrosinistra.
E scaraventa il centrosinistra, e segnatamente i Ds, sulla contraddizione
principale della loro linea sui fatti di Genova, ovvero sulla pretesa
di incriminare il ministro degli interni salvando i vertici delle forze
dell'ordine. L'ex ministro degli interni è fra i primi a intervenire
nell'aula di palazzo Madama (fuori dall'aula, già che c'è,
troverà il modo di dire che "fino al congresso Ds non avremo
pace" perché "ci potrà sempre essere qualcuno
che imputa a D'Alema i serbi uccisi in Kosovo e a Belgrado), e traccia
la via per il centrodestra che lo applaude: l'inchino ai "nostri
eroi", come Schifani chiama polizia e carabinieri, diventerà
il tasto su cui battere ripetutamente per chiedere all'opposizione prova
di unità nazionale sull'ordine pubblico, ovvero di "cultura
di governo". Lo farà Fini, rivendicando le cariche sul corteo
di sabato e il massacro alla scuola Diaz come "comprensibile reazione"
ai fatti di venerdì, "quando molti hanno messo sul banco degli
accusati le forze dell'ordine", per non dire di quelli - D'Alema
- che osano sospettare "inquinamenti di tipo fascista" al loro
interno. Lo farà D'Onofrio, accusando il centrosinistra di "grave
regressione antistatuale". Lo farà Nania, rivendicando che
la destra sta "geneticamente" con le forze dell'ordine mentre
la sinistra "vuole stare con il piede in due staffe", al governo
e in piazza. Dall'altra parte, l'equilibrio si tiene su un filo. Persuasa
che i vertici attuali delle forze armate siano i migliori possibili (sono
pochi i senatori che dicono, ma rigorosamente off the records, "se
De Gennaro deve pagare che paghi anche lui"), l'opposizione cammina
su una strada stretta, fra la denuncia sincera e impietosa delle violazioni
dei diritti, degli imperdonabili massacri, delle insipienze, le inefficienze
e le nequizie che si sono sommate a Genova, e l'affermazione ripetuta
che no, non è contro "le forze dell'ordine in quanto tali"
(Dentamaro, Dalla Chiesa) che si discute, ma contro singoli episodi, singole
responsabilità, "reparti individuati" (Angius). Va anzi
ascritto al merito della sinistra, sottolinea Guido Calvi, di avere nel
corso del tempo democratizzato le forze dell'ordine, mentre ora c'è
il rischio di un ritorno alla cultura dei corpi separati. Non è
l'unico rischio di regressione. Fra le citazioni dagli anni 70, merita
una segnalazione particolare ancora Fini, che riesuma espressioni come
"linea della fermezza" per accreditare il proprio operato, e
"brodo di coltura dell'eversione" per accreditare il teorema
governativo della continguità fra Gsf e "violenti", e
arriva a ventilare "collusioni" fra questi ultimi e alcuni parlamentari
dell'opposizione (Angius: "faccia i nomi, onorevole Fini, o taccia").
Bordon ci prova, a sottrarre l'Ulivo dal ricatto dicendo che gli anni
70 sono lontani e in una democrazia bipolare il minimo che l'opposizione
possa fare, dopo Genova, è chiedere le dimissioni del ministro
degli interni. Ma l'Italia resta lo strano paese che è, in cui
il centrodestra, mentre pretende dall'opposizione la museruola della "cultura
di governo" sui massacri di Genova, avvia la commissione d'inchiesta
sul dossier Mitrokhin contro gli ex comunisti conniventi con la piazza.
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