il manifesto
- 04 settembre 2001
Il radar
dell'esperienza
Naomi
Klein a confronto con Pietro Folena e Giovanni Berlinguer. Tre generazioni
sul palco di Reggio Emilia
IDA DOMINIJANNI
"Non
sono qui per dire cose impertinenti, ma una non posso evitarla: la vera
domanda, oggi, non è quanto il movimento abbia bisogno di un partito,
ma quanto un partito come questo abbia bisogno del movimento". Non
c'è che dire, è con estrema pertinenza che Naomi entra nel
dibattito-clou allestito per lei alla Festa dell'Unità, alla sua
destra (tutti senza cravatta, tempi di lotta e non di governo) Pietro
Folena, alla sua sinistra Michele Serra che coordina e, invitato d'onore,
Giovanni Berlinguer, il candidato-segretario d'età, di nome e d'esperienza
chiamato a confrontarsi con la giovane leader del movimento. E se qualcuno
s'aspettava di vederla spiazzata da un contesto politico poco familiare,
si sbagliava. Serra vorrebbe si parlasse - ancora! - di NoLogo, ma lei
infila dritta la porta politica che lui le socchiude - non è troppo
grande la distanza fra i no-global e la mediazione politica tradizionale?
- e inverte subito l'ordine del discorso, con perfetta padronanza del
contesto, degli interlocutori e delle loro contraddizioni.
E di impertitenti pertinenze ne infila implacabilmente tre o quattro.
Vogliamo discutere del rapporto fra sinistra di governo e "movimento
dei movimenti"? "Semplice, è un rapporto di causa-effetto:
per anni ci siamo sentiti dire da Clinton negli Usa, da Blair in Gran
Bretagna e da non mi ricordo chi in Italia che la globalizzazione è
quella che è e per limitarne i danni non ci si può fare
niente, in queste condizioni era chiaro che un movimento prima o poi sarebbe
esploso". Vogliamo parlare dell'accusa che la sinistra riformista
muove al movimento, di porsi contro una globalizzazione che invece andrebbe
accettata e cambiata? "Io sono d'accordo, l'espressione no-global
è impropria, i veri global siamo noi, non quelli che vogliono i
capitali liberi e i migranti bloccati sui confini, ma neanche voi che
vi siete tanto impegnati sulla moneta europea: le canzoni di Manu Chao
vanno dappertutto, l'euro ha un sacco di problemi e non va da nessuna
parte". Vogliamo parlare di com'è andata a Genova? "In
due anni ho assistito con orrore al passaggio, da parte della polizia,
dagli sfollagente ai lacrimogeni, dalle ferite gravi agli omicidi. Ho
visto grandi forze di polizia internazionale investire quantità
assurde di energie e di danaro per rappresentare una giovane generazione
di militanti come i vecchi terroristi. A giugno era già chiaro
che la polizia stava allestendo a Genova il set giusto per un evento violento.
Ma i media non parlavano di questo, parlavano pregiudizialmente della
violenza dei manifestanti". Sul punto Naomi non fa sconti: "la
brutalità della polizia si nutre del silenzio e dell'indifferenza
dell'opinione pubblica", è da questa porta che passa la crisi
della democrazia ed è della crisi della democrazia che Genova parla.
Ultima, pertinentissima rasoiata: "Vi prego di sottrarvi a qualunque
tentativo di dividere il movimento in buoni e cattivi, non violenti e
violenti", con buona pace di quanti, e in casa Ds non sono pochi,
sacrificherebbero volentieri qualche tuta bianca sull'altare del pacifismo
no-global.
Piovono applausi sotto il tendone gremito, e non sono solo le parole a
guadagnarseli ma il tono sincero, lo sguardo diretto, la convinzione di
Naomi essere dalla parte giusta nella data giusta. Al di qua e al di là
delle parole, sul palco si mostra e passa un messaggio più sostanziale
e più importante. C'è una giovane donna che parla al presente,
sulla base di un'esperienza diretta, e fa della propria esperienza un
radar per muoversi con certezza nel territorio rarefatto della politica
ufficiale. E ci sono due dirigenti, di due diverse generazioni, di un
partito che ha perso il radar dell'esperienza, e con esso il senso della
propria collocazione nel tempo e nello spazio, e in perenne transizione
cerca di ricostruire il sentiero interrotto della continuità e
della discontinuità, della tradizione e degli strappi, di una storia
lunga di opposizione e di una storia breve di governo. Ed è la
generazione di mezzo, che sotto le scosse della transizione ci sta da
due decenni e più, quella più provata. Pietro Folena, reduce
da un recente viaggio a Porto Alegre, non risparmia l'autocritica: "sull'afasia
e l'inadeguatezza" della sinistra europea in materia di globalizzazione,
su un europeismo diventato eurocentrismo, sul deficit di universalismo;
sul "tragico cortocircuito", infine, "che abbiamo consumato
prima e dopo Genova, con adesioni, ritiri, mozioni precipitosi e tardivi".
"Mai più Genova", giura. Ma sul tasto della violenza
torna l'antica tattica del colpo doppio, al cerchio e alla botte: le efferatezze
della polizia segnano un punto di non ritorno, però "altre
stagioni, in Italia, hanno visto bruciarsi i movimenti per non aver saputo
erigere un muro contro la violenza". Siamo sempre lì, bruciano
gli errori della stagione di governo mentre incombono ancora i fantasmi
degli anni 70.
Forse perciò, in un momento che così palesemente mostra
la cesura fra la nuova domanda politica del movimento no-global e la tradizione
consunta delle forme politiche tradizionali, risulta paradossalmente più
tranquillo il dialogo con una memoria più lunga. Giovanni Berlinguer
non si confonde con i no-global, tiene la distanza di una proposta politica
autonoma del partito sulla globalizzazione, ma del movimento raccomanda
"l'ascolto" e riconosce l'impatto politico, "la posta in
gioco è la natura del potere sovranazionale che non si riesce a
democratizzare come si fece nel dopoguerra". Legge la polemica contro
i marchi di NoLogo a partire dalla propria competenza in materia di bioetica,
mercificazione del corpo, lotta sui brevetti ("la lotta alle multinazionali
si può fare, Mandela c'è riuscito"); legge l'inchiesta
sullo sfruttamento delle lavoratrici asiatiche e la paragona alle inchieste
marxiane sul primo capitalismo. Condanna la pratica degli sfasciavetrine,
ma "le violenze dei Black Bloc sono minime rispetto alla violenza
che l'assetto globale crea nel mondo", e comunque il fatto è
che a Genova "il governo ha tentato di fare della polizia uno strumento
contro i movimenti democratici". La frase ogni tanto tradisce una
lente d'altri tempi, ma chissà che non sia meno deformante di certi
proclami modernisti per mettere a fuoco i particolari del presente.
|