il manifesto
- 31 luglio 2001
Padri
e madri a Genova
IDA DOMINIJANNI
E'
difficile sventagliare e articolare il discorso su Genova e il dopo-Genova,
risucchiato com'è dalla macroscopica centralità della violazione dei diritti
fondamentali da parte delle forze dell'ordine e della loro direzione politica,
centralità che troppi - non solo a destra e non tutti a destra - occultano
sostituendole quella di una generica violenza, di tutti contro tutti,
uguale e contaria, opposta e simmetrica, alla faccia di qualunque senso
delle proporzioni e di qualunque analisi sensata delle parti in campo,
delle loro intenzioni, dei loro comportamenti, dei loro spiazzamenti.
Eppure, sventagliare e articolare bisogna, per trasgredire fin da subito
il comandamento e l'ordine del discorso di chi fin da subito, cioè fin
dall'allestimento di Genova come un set di guerra, ha voluto ridurre un
evento polimorfo come quello del G8 e del contro-G8 al suo solo aspetto
bellico e repressivo. Al di qua e al dilà di questo, ci sono sulla scena
un nuovo movimento, un nuovo sociale, nuove domande politiche. Con tutto
quello che si portano dietro e che riaprono, nella realtà, nel simbolico,
nell'immaginario.
Fra quello che il movimento si porta dietro e riapre, c'è la questione
cosiddetta generazionale (ne hanno scritto sul manifesto di domenica
Loris Campetti e Oriella Savoldi, e il tema circola in molti interventi
su altri giornali). Diciamo così: fra le cose accadute a Genova, c'è stato
non solo il protagonismo dei/delle più giovani, ma anche la presa di coscienza
di una posizione "genitoriale" da parte di molti e molte quaranta-cinquantenni,
per la prima volta così massicciamente a contatto con una generazione
politica nuova che irrompe sulla scena in un modo simile e insieme diverso
da come era accaduto nel Sessantotto e seguenti.
Il punto è tutto lì: in quel simile/diverso, nonché, come dirò più avanti,
in quel "Sessantotto e seguenti": e riguarda noi quaranta-cinquantenni,
non i/le più giovani. C'è fra noi la tentazione a riflettersi nel nuovo
movimento come in uno specchio, facendo leva sulle somiglianze e le ripetizioni,
più che lasciandosi interrogare dalle differenze e dagli spiazzamenti.
Si può capire: molte cose ritornano; su molte cose si vorrebbe far valere
l'esperienza, festeggiare la consonanza. Ma nel dialogo, si sa, la distanza
vuole la sua parte quanto la vicinanza, le diversità quanto la somiglianza;
nella trasmissione, la discontinuità è talvolta più feconda della continuità;
nella relazione, la differenza unisce più dell'identità.
Non è un tema nuovo, nella storia dei movimenti: è in questa chiave che
nel femminismo abbiamo lavorato al rapporto con le più giovani, a cominciare
dalle scuole e dalle università, e non solo in Italia. Il che non vuol
dire che sia facile farla funzionare, anche nel femminismo, e anche questo
s'è visto a Genova. In molte c'eravamo andate anche per incontrare le
più giovani; anche per verificare quanto altre - da Naomi Klein nel suo
viaggio in Italia a Giuseppina Ciuffreda nei suoi servizi su questo giornale
- ci avevano detto sulla forte impronta femminil-femminista di questo
movimento. E' un'impronta che si vede infatti, nelle tematiche biopolitiche
e nella forma relazionale, associativa, antigerarchica, reticolare. Ma
che sbiadisce, nel tornare a prevalere di quelle stesse virilissime pratiche
- scontro frontale, misurazione delle forze, rappresentazione ingenua
del potere - dalle quali il femminismo degli anni Settanta si separò a
suo tempo e definitivamente. Anch'io, come Oriella Savoldi, di fronte
alle grate surreali della zona rossa avrei suggerito una pratica di sottrazione
piuttosto che quella del confronto diretto. Ma possiamo pretendere questa
consapevolezza, da parte delle più giovani? O non dobbiamo farci interrogare,
e spiazzare, anche dalla loro esigenza di "stare in campo"; e stare in
acolto, ovviamente non muto, di come - se - una loro presa di distanza
dalla ripetizione maschile tornerà a manifestarsi, come già sembra puntualmente
accadere dopo lo shock genovese?
La tradizione politica, e quella dei movimenti in particolare, è piena
di tracce invisibili, di memoria involontaria, di sedimentazioni sotterranee;
rispunta imprevista, e in forme impreviste. Non mi stupiscono i salti
di discontinuità fra le madri e le figlie; di più mi stupiscono, in verità,
i vuoti di memoria all'interno della generazione dei padri e delle madri.
Il dialogo maschile, fra padri e figli per schematizzare, sembra ruotare
in questi giorni soprattutto sulla questione della violenza, e di come
non ripercorrere le orme già sperimentate venti o trent'anni fa. Anche
questo si capisce, data la centralità del tema nel romanzo di formazione
politico virile. Meno si capisce che nel gioco della trasmissione maschile
venga ancora una volta messa fuori campo la parola femminile. Eppure fu
soprattutto su questo, nel '68 e seguenti, che i padri e le madri di oggi
si separarono, e da allora non sono più la stessa cosa.
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