il manifesto
- 29 luglio 2001
DOPO
GENOVA
Che significa non lasciarli da soli
Oriella
Savoldi
"Tutto
era stato allestito perché questo, e solo questo, accadesse a Genova",
ha scritto Ida Dominijanni sul manifesto del 21/7. E' questa prevedibilità
dell'evento che mi chiama in causa. Non ero a Genova, ma ascoltando Radio
Gap e osservando le immagini televisive, mi sono chiesta perché
non avevo insistito su una considerazione più volte avanzata nel
confronto con chi a Genova voleva esserci: bisognerebbe lasciare soli
gli 8 "grandi", soli con i loro eserciti, e inventare modalità
di iniziativa politica dove siamo. Una posizione così "minimalista"
che io stessa, nel proporla, dubitavo della sua sensatezza.
Ormai, tant'è. Non la modalità di "fare vuoto"
e "sottrarsi" ha prevalso, ma la ricerca di visibilità,
anche massmediatica, del movimento. Ma il fatto che la visibilità
sia andata soprattutto alla violenza ci deve far riflettere.
Un ragazzo ucciso. Un coetaneo che spara. Del secondo forse ci arriverà
il racconto. Dalla voce del primo non sapremo mai. Una sproporzione che
resta incolmabile a scompaginare qualsiasi spiegazione compiuta. Ciò
che possiamo fare, è discutere l'esperienza.
Le immagini hanno una capacità di comunicare in proprio, ben oltre
le parole. Anzi, spesso le contraddicono. Così come le parole vanno
ben oltre la nominazione della realtà nella loro capacità
di evocare immagini. Quale immaginario evocano parole militari come scontro,
contatto, guerra? Basta
definirsi pacifici per rendere inefficace la promessa distruttiva che
evoca l'uso di queste parole? Di quale "professionalità"
parlano volti sanguinanti, corpi portati via in barella, dormitori devastati?
"Non è il momento di rilanciare la critica femminile di questa
politica guerreggiata?" chiede ancora Ida Dominijanni a Luana Zanella
nell'intervista sul manifesto del 22/07. Sì, rispondo per la mia
parte. Ma non di rilancio si tratta: semplicemente di mettere in campo
ciò che di sensato la propria esperienza, in
pensieri e sentimenti, suggerisce di dire e di fare. Anche quando può
sembrare minimo. E a costo di non averne un riconoscimento immediato.
Allora, come dice Luana Zanella, "questo movimento non può
essere lasciato da solo". Il che non significa però, dal mio
punto di vista, cercare una coincidenza con esso, bensì una interlocuzione.
L'esperienza di madri e padri è irriducibile rispetto a quella
dei figli e delle figlie. E viceversa.
Riconoscere questa non coincidenza è segno di rispetto e riconoscimento,
è un sapersi mettere all'altezza di una interlocuzione autentica.
Capace di ascoltare. Capace di offrire il sapere guadagnato nel proprio
percorso politico.
"Soli", figli e figlie sono lasciati dall'eccesso di una presenza
materna tesa più a proteggerli e a confermarli che a fare dono
del proprio sapere politico sull'inefficacia di taluni percorsi che si
ripetono. E dalla presenza di padri troppo occupati a confermare sé
stessi, le proprie posizioni e le proprie certezze, sordi a una presa
di coscienza dell'inefficacia di molti dei rituali politici nei quali
si ripetono. Rituali che hanno prodotto una civiltà ormai nuda
nelle sue contraddizioni. E una società che è solita disprezzare,
dei e delle giovani, umanità e generosità.
Di converso, è già all'opera una nuova civiltà che
non accetta la finta promessa di felicità di chi produce e vuole
benessere per pochi al prezzo del sacrificio di molti. Il "movimento
dei movimenti", nella sua composizione diversificata, molto deve
all'opera mediatrice femminile, e a quel sapere della differenza che delle
tradizionali pratiche di movimento ha individuato anche limiti e falle.
Nelle contraddizioni di questi giorni molto è da ricondursi all'ossessiva
ripetizione di un rituale virile che dissolve la politica nella guerra.
E alla mortificazione e autocensura di molto desiderio femminile, che
vorrebbe maggiori energie e pensiero nel lavoro politico quotidiano più
che in appuntamenti dettati dai massimi sistemi, che la pretesa di combatterli
in realtà accredita.
Oriella Savoldi
della Flai-Cgil di Brescia
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