Guerra
e terrorismo
Care amiche,
abbiamo preso l'iniziativa di stendere un documento e di sottoporvelo,
in modo che chi di voi lo condivide possa sottoscriverlo.
L'intenzione è di inviarlo ai giornali, alle radio, oltre che di
farlo
conoscere in occasione della marcia Perugia-Assisi (del 2001 n.d.r.) .
Le adesioni possono essere inviate ai seguenti indirizzi: pdd@isinet.it;
lea.melandri@tiscalinet.it
Non siamo
americane, né abitanti di New York, e non conosciamo le vittime
degli attentati compiuti negli Stati Uniti l'11 settembre 2001. E non
ci è mai capitato - e tanto meno siamo disposte a lasciarlo capitare
oggi - di pensarci o dirci 'americane'.
Per due buone ragioni.
Non accettiamo alcuna forma di identificazione nazionalistica.
E, anche se il discorso che domina in questi giorni - il discorso della
politica, amplificato da media sempre più smarriti, servili e parassitari
- spinge a pensare l'America (insieme alle sue periferie occidentali e
orientali e all'Europa) come un corpo unico, compatto e sgombro da contraddizioni
e conflitti interni, non siamo disposte a dimenticare che la caratteristica
principale dell'America a stelle e strisce è di essere innanzitutto
un luogo di 'difficili' convivenze: nera, bianca, europea, araba, cinese,
latina, russa, povera, ricca, cristiana, musulmana, ebrea, new age, democratica,
repubblicana, laica, fondamentalista, capace - dentro e fuori casa - di
grandi atti di democrazia, ma anche delle più feroci politiche
di rapina, sfruttamento e sterminio.
Al più, dell'America, ciascuna di noi ha amato o respinto uno o
più aspetti particolari.
Ecco perché, rispetto agli Stati Uniti, soffriamo tutte di quel
mal d'America che comprende sia l'amore e il desiderio sia la condanna
e il rifiuto. Ed ecco perché non siamo disposte a fare nostro il
copione di chi approfitta dello sgomento prodotto dai fatti dell'11 settembre
per costringerci a dichiarare e addirittura a "sentire" un'appartenenza
a un immaginario e monolitico mondo occidentale - leggasi Stati Uniti
- che ha scatenato una guerra "duratura" (e per sua stessa ammissione
"sporca" e, aggiungiamo noi, totalmente opaca) in nome della
" libertà" e della "sicurezza".
Ciò che sappiamo è che oggi, nel mondo che tutti insieme
- occidentali, orientali, settentrionali, meridionali - abitiamo, questo
tipo di guerra non può che peggiorare la vita di miliardi di persone,
tanto nei paesi più ricchi quanto nei paesi più poveri del
mondo, e consentire ai pochi padroni della terra di ridistribuirsi aree
geografiche, risorse e poteri.
Essa, che la si definisca guerra di civiltà o guerra al terrorismo,
si risolverà semplicemente in un ennesimo brutale assestamento
ai vertici, in cui nessuno può ragionevolmente credere che i poveri
e i diseredati della terra, inclusi i tanti statunitensi sotto la soglia
della povertà, riescano a riconoscersi o da cui possano trarre
qualche vantaggio.
Denunciamo dunque questa operazione violenta che si sta tessendo a livello
mondiale e la spericolata macchina del consenso che la sostiene.
Siamo infatti consapevoli non solo che l'irripetibile identità
e singolarità di ciascuna di noi è frutto dell'intrecciarsi
di molteplici esperienze e appartenenze cui non intendiamo rinunciare
e che dettano il nostro sentire anche di fronte ad avvenimenti come l'attacco
terroristico negli Stati Uniti, ma anche che l'esaltazione e il richiamo
a un'unica appartenenza si fondano, riproponendolo a livelli diversi (economico,
culturale, sociale, politico), sullo stesso meccanismo che ha reso possibile
la costruzione di un mondo in cui l'unico soggetto riconosciuto e che
si pone come universale - attraverso l'esclusione delle donne in quanto
"altre" o la loro cancellazione e inglobamento - è quello
maschile.
Mentre gli speaker delle reti televisive di tutti i paesi occidentali
commentavano eccitati, sproloquiando di scontro tra civiltà, la
scena riproposta centinaia di volte dei due aerei che cozzavano contro
le torri gemelle di New York, non potevamo fare a meno di pensare che
quella era una scena virile, lo scontro di due simboli aggressivi e perfettamente
speculari - la grandiosità dei due grattacieli e la potenza di
due TIR dell'aria gonfi di carburante -, non già lo scontro tra
due universi simbolici diversi, due culture, due mondi antitetici.
Ogni politica di terrore armato, come quella che ha reso possibile quella
scena, non solo fa strage di esseri umani inermi, ma distrugge coi loro
"corpi" anche le diversità di cui essi sono portatori.
Le due torri, gli aerei, il Pentagono contenevano donne e uomini in carne
ed ossa provenienti da diverse parti del mondo, professanti religioni
diverse, cittadini americani e clandestini senza diritto di cittadinanza.
Troviamo rivoltante che quel campione della diversità del mondo
rappresentato dalle vittime sia stato, nel discorso e nelle immagini,
simbolicamente distrutto una seconda volta per dare forma a un'unica identità
collettiva che sotto le bandiere degli Stati Uniti, della Nato e persino
dell'Onu difenda con la guerra l'ordine e le gerarchie del mondo ingiusto
in cui viviamo.
Questa rimozione ci porta inevitabilmente a pensare a un'altra e grave
cancellazione, avvenuta da anni sul corpo delle donne afgane, rese due
volte invisibili - letteralmente estromesse dalla società - dal
fondamentalismo dei loro uomini e dall'interessato disinteresse dei governi
occidentali.
Ovviamente
non verrà mai ricostruita con esattezza la catena di lunghe collusioni,
di antiche e impensabili cooperazioni dettate dall'interesse economico
e politico, di minute complicità che hanno reso possibili gli attentati
negli Stati Uniti.
Sappiamo tuttavia con certezza che, se già nell'ultimo anno il
governo israeliano di Sharon e i suoi sostenitori ci avevano familiarizzato
all'impiego disinibito di termini come vendetta, ritorsione, rappresaglia
contro popolazioni inermi (e alle azioni conseguenti), ora anche l'odio,
anzi lo "schifo" per l'altro, a giustificare il quale si è
spesa la giornalista Oriana Fallaci con una prosa che ricorda lugubremente
quella della rivista fascista "La Difesa della razza" o certe
cronache marinettiane della guerra di Libia, avrà nel nostro paese
libero corso. Sono queste le parole che ricorrono oggi nei discorsi dei
'difensori' dell'Occidente, come dei 'guerrieri' del terrorismo.
Non ci siamo dimenticate del brivido che ci percorreva quando ne sentivamo
l'eco proveniente dai combattimenti nella ex Jugoslavia, mirati a separare
con la forza, in nome di mitologiche purezze e genealogie, popolazioni
diverse che fino ad allora erano in qualche modo riuscite a convivere.
Alcune
donne della ex-redazione di Lapis:
Lea Melandri, Paola Melchiori, Maria Nadotti, Paola Redaelli, Sara Sesti
Anita Sonego (Associazione per una Libera Università delle Donne,
Milano)
Maria Grazia Campari (Osservatorio sul lavoro delle donne, Milano)
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