Milano,
aprile 2006
ANALISI
STORICA E POLITICA DELLE LEGGI 405 (consultori pubblici) e 194 (aborto);
CENNI SULLA LEGGE 40 (procreazione medicalmente assistita).
Tiziana
Garlato - Femminismo Libertario
PREMESSA
Il presente documento, che ci accingiamo a rendere pubblico e divulgare
per quanto ci sarà possibile - e con la volontà di organizzare
diversi momenti di incontro per la sua discussione con altre donne - nasce
da un moto di ribellione: il gruppo cui chi scrive appartiene - Femminismo
Libertario - aveva aderito alla manifestazione dello scorso 14 gennaio
organizzata da "Usciamo dal Silenzio", ma da una posizione critica
- espressa e ribadita in assemblea e nel Forum - rispetto all'impostazione
"difensivista" sulla legge 194.
Dal 1975 al 1982 ho preso parte attiva in prima persona a tutte le fasi
che precedono e seguono quella legge, avendo militato nel Movimento di
Liberazione della Donna e coadiuvato il C.I.S.A. (Centro Informazione
Sterilizzazione e Aborto) nel percorso politico che andò dalle
autodenunce per procurato aborto alla raccolta di firme per la sua depenalizzazione,
fino alla reazione consumatasi in ambito parlamentare con il varo della
194 e ai due referendum contrapposti del 1981. Sulla scorta di quella
esperienza, insieme a Vanna Perego, nuovamente compagna di strada e allora
attivista nel C.I.S.A. , che qui ringrazio per il prezioso contributo,
ho cercato di ripercorrere con le compagne di Femminismo Libertario le
tappe di quella stagione per poter meglio affrontare l'attualità.
Che quella fosse una pessima legge, e che il suo "funzionamento"
(oggi da più parti sbandierato) sia dipeso da una sostanziale "non
applicazione letterale", son cose, queste, di cui siamo tutt'ora
convinte .
Ci è parsa quindi inquietante l'ondata di richieste di una sua
"piena applicazione" (si badi bene: sia dal fronte "abortista"
che da quello antiabortista), e urgente l'esigenza di ricompattare quella
consapevolezza che le donne certamente avevano avuto quando affermavano
che nessuna legge avrebbero accettato sul proprio corpo.
L'impressione è quella che, in particolare le nuove generazioni
di donne, questa legge non l'abbiano letta: siamo convinte che sia necessario
leggerla (o ri-leggerla), e conoscerne la storia; e questo è l'invito
che ci sentiamo di rivolgere a tutte le donne che incontreremo.
L'intento di questa analisi è pertanto quello di fornire uno strumento
comune, una base minima per tracciare un percorso diretto a valutare insieme
l'opportunità e la praticabilità di azioni politiche in
ordine alle leggi di cui si tratta.
Lo sforzo sarà quello di limitare il più possibile lo spazio
delle "opinioni", per privilegiare invece quello riservato a
una successione coerente di eventi storici e citazioni testuali documentati
o documentabili, evitando al massimo possibili interpretabilità.
L'eccezione che mi consentirò sarà relativa alla sottolineatura
di quanto gli elementi di tale successione possano far emergere per deduzione
logica.
Infine: il senso conferito a questo lavoro - anche per il suo carattere
grossolanamente riassuntivo - esula decisamente dall'accademismo ed è
innanzitutto quello di mostrare quanto le Leggi siano indicatori che consentono
di guardare, cercandone la coerenza e il senso, agli accadimenti storici
in chiave politica: in particolare le tre leggi prese in esame sono indicatori
di una vicenda che si dipana nell'arco di 30 anni, e in qualche modo sono
il riscontro della risposta reazionaria alla "rivoluzione femminista".
Si tratta di un percorso che - alla luce del risvolto e del precipitato
istituzionale frutto dell'impianto giuridico analizzato - può mettere
in evidenza l'ovvietà consequenziale dell'attuale recrudescenza
del dogmatismo cattolico, nella sua pretesa di essere dirimente nelle
questioni legate alle libertà individuali e nell'intento di informare
lo spirito del Legislatore.
Al lavoro collettivo il compito di trarre e di elaborare eventuali spunti
di azione.
Il Movimento Femminista degli anni '70, la forza di rottura degli anticoncezionali.
E' cosa nota quanto di rivoluzionario abbia prodotto il percorso di autodeterminazione
delle donne, a partire dall'affermazione di una gestione libera e non
subordinata della propria sessualità: non di sola contraccezione
si parlava, ma di una messa in discussione a 360° del rapporto con
il maschio e in particolare delle pratiche sessuali che relegavano le
donne nel ruolo passivo/riproduttivo.
Si andava affermando anche una pratica denominata "self-help"
(auto-aiuto), che attaccava l'atavico strapotere della classe medica sui
corpi femminili, e specialmente quello del "ginecologo": le
donne del Movimento davano vita a Consultori autogestiti, avvalendosi
della collaborazione di ginecologhe compagne di lotta, iniziando ad esempio
ad utilizzare tra di loro lo speculum.
Questo percorso - di necessità qui solo sommariamente tracciato
-proprio perché centrato sulla sessualità metteva in crisi
e ridisegnava in maniera irreversibile i rapporti con l'altro sesso.
Se è vero che la legge sui consultori, varata nel 1975, esprimeva
in ogni caso una logica familistica basata su una sessualità eterodiretta,
tuttavia indubitabilmente fotografava il mutamento profondo che il femminismo
aveva impresso, se non altro perché la contraccezione, che liberava
la sessualità femminile dalla mera sfera riproduttiva, diveniva
strumento di massa promosso da una legge dello Stato, veicolando (al di
là degli effetti pratici) un immaginario collettivo in radicale
mutamento.
Complice la propulsione data dall'affermazione del divorzio, la centralità
data dal Movimento alla sessualità determinava in generale l'erompere
nel pubblico di questioni private: la stampa dava sempre più frequentemente
conto delle denunce che le donne iniziavano ad avere il coraggio di sporgere
nei casi di stupro. Si assisteva alla mobilitazione di donne avvocato
che si battevano contro l'inveterata impostazione data ai processi da
corti giudicanti e colleghi maschi difensori degli stupratori, consistente
nel teorema per il quale la donna stuprata ha in ogni caso "provocato"
o non ha opposto adeguata resistenza.
Nascevano in tutta Italia i "centri antiviolenza" autogestiti,
cui le donne potevano rivolgersi per avere assistenza legale o semplice
ascolto e solidarietà.
Dai dati raccolti in questi centri emergeva un tasso elevatissimo di violenza
domestica.
Il M.L.D. (Movimento di Liberazione della Donna) stendeva, insieme all'avv.
Tina Lagostena Bassi, una proposta di legge di iniziativa popolare, per
la quale raccoglieva 300.000 firme che consentivano la sua presentazione
in Parlamento. La proposta sarebbe stata discussa assieme ad altre di
iniziativa parlamentare, e si sarebbe arrivati al varo di una legge in
materia di violenza sessuale: il reato di stupro cessò di essere
"reato contro la morale" per divenire "reato contro la
persona", con mutate conseguenze di ordine penale e procedurale.
E' in questo clima, in cui la sessualità, la "maternità
libera e cosciente", la gestione del proprio corpo erano istanze
che si affermavano anche oltre l'ambito del Movimento, che venne varata
nel 1975 la Legge 405 che istituiva i Consultori Familiari http://temi.provincia.milano.it/serv_soc/famiglie/normativa/1975_legge405.pdf
; questa Legge, pur con tutti i limiti più sopra evidenziati, tuttavia
registrava il mutamento avvenuto nei costumi sulla spinta dell'azione
femminista: all'art.1 si parla di "maternità e paternità
responsabili"; si individua tra gli scopi dei consultori "la
somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità
liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione
responsabile, nel rispetto delle convinzioni etiche e dell'integrità
fisica e psichica degli utenti", e ancora "la divulgazione delle
informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza, consigliando
i metodi e i farmaci adatti a ciascun caso". Infine, per una comparazione
con la 194, è utile sottolineare il contenuto dell'art.3, che riporto
integralmente: "Il personale di consulenza e assistenza addetto ai
consultori deve essere in possesso di titoli specifici in una delle seguenti
discipline: medicina, psicologia, pedagogia ed assistenza sociale, nonché
dell'abilitazione, ove prescritta, all'esercizio professionale".
Vedremo in seguito quanto più "laico" ed avanzato sia
questo articolo paragonato a quanto previsto dalla 194 circa il personale
addetto.
Aborto clandestino, referendum, Legge 194, referendum del 1981.
Va detto, a proposito dell'accennata pratica del "self-help"
adottata in veri e propri consultori autogestiti dalle donne del Movimento,
che naturalmente in quel contesto si poneva anche il problema delle gravidanze
indesiderate.
Come si sa il fenomeno massiccio quanto sommerso degli aborti clandestini
registrava interventi praticati in cliniche private a prezzi elevatissimi
per chi poteva permetterselo e, per tutte le altre, interventi praticati
con decotti di prezzemolo e ferri da calza dalle cosiddette "mammane",
a prezzi più abbordabili ma con serissimi rischi per la vita delle
donne e in ogni caso per la loro salute.
Nei consultori del Movimento si ricorreva all'aiuto delle compagne ginecologhe:
ovviamente, data la situazione di clandestinità, anche qui i rischi
non erano indifferenti. Tuttavia le ginecologhe attive nel Movimento iniziarono
a diffondere un metodo abortivo più sicuro, sia perché non
richiedeva l'anestesia (ed era anche, perciò, molto meno doloroso)
sia perché non comportava il "raschiamento", ovvero l'asportazione
dell'ovulo fecondato raschiando l'endometrio con un arnese chiamato "cucchiaio"
(il metodo usato nelle cliniche private dai "cucchiai d'oro").
La nuova metodologia era denominata "Karman", dal nome dell'ideatore
dell'apparecchiatura che consentiva di "aspirare" l'ovulo senza
ledere per abrasione i tessuti dell'utero.
La vastità del fenomeno degli aborti clandestini indusse il M.L.D.,
nel 1972, ad abbozzare una proposta di Legge per una regolamentazione.
Tuttavia da un lato la più parte del Movimento era contraria a
legiferare, propendendo per la totale depenalizzazione, dall'altro si
era aperto con le donne dell'U.D.I. (Unione Donne Italiane), perlopiù
legate al PCI, un dibattito di retroguardia: l'UDI sosteneva ad esempio
che le donne cattoliche non sarebbero state ancora pronte per un'apertura
sull'aborto.
Il MLD fu convinto dalle posizioni maggioritarie del Movimento, abbandonò
l'idea del progetto di legge e si risolse poi a supportare l'azione del
Partito Radicale per un referendum totalmente abrogativo della legge che
perseguiva l'aborto come reato.
Tale azione aveva preso l'avvio con la nascita, su iniziativa di Adele
Faccio, del C.I.S.A. (Centro Informazione Sterilizzazione e Aborto): i
consultori del CISA divennero il maggiore riferimento per i milioni di
donne che decidevano di interrompere la gravidanza, sia perché
i costi erano "politici" (ma anche pari a 0 se la donna non
disponeva di denaro) sia perché le condizioni di sicurezza erano
le più elevate possibile: metodo Karman, ginecologi più
o meno politicizzati, donne che "assistevano" instaurando anche
rapporti di solidarietà e aiuto psicologico. L'attività
dei consultori CISA si estendeva all'organizzazione di viaggi in Inghilterra
per gravidanze oltre il 3° mese e per le minorenni, oltrechè
ad una capillare informazione sui metodi contraccettivi.
Si era creata in tutta Italia una "rete" di luoghi fisici in
cui praticare gli aborti: al di là della clinica del dr. Giorgio
Conciani di Firenze (messa a disposizione con intento dichiaratamente
politico), si trattava di abitazioni private che molte donne - del CISA
ma anche del MLD e del Movimento in generale - mettevano a disposizione
periodicamente. La sottoscritta all'epoca dava la propria casa due volte
alla settimana, avendone adibito una stanza allo scopo: qui si trovava
un lettino ginecologico e nel box veniva rimessato l'apparecchio Karman
.
Va da sé che eravamo in tante e in tanti a rischiare la galera,
oltre alle donne che abortivano.
E, appunto, l'occasione politica era quella di una azione nonviolenta
che, obbligando lo Stato ad applicare una sua propria legge, ne smascherasse
l'ingiustizia e l'ipocrisia portando in emersione la piaga degli aborti
clandestini.
Si iniziò con le autodenunce per aborto e procurato aborto. Nulla:
nessuno arrestava nessuno. Dopo un'escalation di autodenunce anche da
parte del CISA come intera associazione, del Partito Radicale in quanto
tale, del dr. Conciani in quanto medico, l'autorità costituita
non potè più ignorare la cosa.
Era il gennaio1975: finirono in galera Adele Faccio, Emma Bonino, Gianfranco
Spadaccia e Giorgio Conciani.
L'eco di cronaca fu vastissimo, la solidarietà popolare altrettanto
e prese il via nello stesso anno la raccolta di firme per l'abrogazione
totale della Legge (inserita nel Codice Rocco, di epoca fascista) che
vietava l'aborto.
Questa iniziativa, che naturalmente non esauriva i temi dell'ampio percorso
di elaborazione femminista sulla sessualità, tuttavia andava nella
direzione auspicata di una totale depenalizzazione e non furono poche
le donne del Movimento che presero parte attiva nella raccolta di firme.
Le quali firme superarono le 500.000 prescritte per l'indizione del referendum
abrogativo.
Sennonché nel 1976 si sarebbero tenute le elezioni politiche e
la data utile per indire il referendum sarebbe slittata di parecchio (se
non erro di 2 anni).
E' cosa nota che l'asse DC/PCI non aveva alcuna intenzione di indire il
referendum per il palese nocumento e intralcio che questo avrebbe comportato
all'avanzato stato dei lavori sul Compromesso Storico. (Del resto solo
pochi anni prima la stessa ritrosia aveva caratterizzato l'atteggiamento
del PCI sul divorzio).
La prima deduzione logica dai fatti esposti si innesta esattamente a questo
punto: perché è a questo stadio che la cronaca dei fatti,
unita alla lettura dei testi di legge, autorizza a dedurre l'inizio di
una fase di "reazione" alla "rivoluzione" femminista.
Mentre con la legge 405 sui consultori si era verificato il recepimento
in sede istituzionale delle istanze di un'opinione pubblica ormai orientata
dalle lotte femministe, dopo la raccolta di firme per la depenalizzazione
dell'aborto, se si volle evitare il referendum attraverso un disegno di
legge parlamentare fu perché si temeva (anche questa volta a fronte
di un'opinione pubblica orientata) la vittoria dei "sì";
tanto più che le piazze si andavano riempiendo di donne che mettevano
in guardia: "nessuna legge sui nostri corpi".
E, in ogni caso, la Legge che sortì dalla mediazione parlamentare,
la 194, ebbe l'unico pregio (certo non indifferente) di stabilire le regole
per le quali l'aborto non sarebbe più stato reato. Ma appunto queste
regole esprimono il carattere reazionario e restauratore dell'intervento
statale da quel momento in avanti (il culmine sarà palesato dal
testo della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita). Si allega
a questo proposito l'intervento di Emma Bonino alla Camera nel 1976, intervento
di voto contrario al testo della 194.
Entriamo nella 194 http://www.giustizia.it/cassazione/leggi/l194_78.html.
Una prima osservazione sul titolo; il quale, prima di riferirsi all'i.v.g.,
esordisce così: "Norme per la tutela sociale della maternità
".
Non dovrebbe apparire forzato osservare che, forse, un primissimo vizio
di fondo si annida proprio in questo espediente agito da una stessa Legge
che accorpa, come in una medaglia con il suo rovescio, maternità
e aborto, quand'anche fosse accettabile che la maternità possa
essere oggetto di "tutela" (si spera di stampo non fascista).
Ci torneremo; veniamo ora all' art.1: "Lo Stato garantisce il diritto
alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale
della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione
volontaria della gravidanza di cui alla presente legge, non è mezzo
per il controllo delle nascite. [
]
evitare che l'aborto sia
usato ai fini della limitazione delle nascite".
Questo incipit ha lo stesso sapore che avrebbe lo Statuto dei Lavoratori
se si premurasse di sottolineare il "valore sociale" del diritto
alla serrata da parte dei padroni. Ma soprattutto è l'inizio della
"sterzata": passiamo cioè da una legge dello Stato che
promuove "i mezzi [
] liberamente scelti dalla coppia e dal
singolo in ordine alla procreazione responsabile" a una legge dello
stesso Stato che promuove "il valore sociale della maternità".
Può piacere o meno, ma non ci si può sottrarre alla constatazione
per cui lo spirito laico, non "confessionale" della 405 viene
rimpiazzato da una formulazione tipica dello "Stato Etico".
Non sarebbe azzardato immaginare che le forze conservatrici (di tutto
l'arco costituzionale), avendo dovuto "obtorto collo" tollerare
il fatto compiuto di costumi sessuali mutati, non si sia piegata a tollerare
il possibile venir meno della rappresentazione patriarcale della "donna
= madre", sancendone per legge "il valore" in assoluto.
In effetti tutto il testo di legge è improntato alla valorizzazione
etica, nemmeno troppo occultata, della donna che decide di proseguire
la gravidanza, a tutto scapito dell'immagine di quella che, dopo avere
superato tutti i "paletti" previsti, decide di non volere un
figlio, tanto che lo Stato le chiede di motivare la sua decisione escludendo
che una donna possa in modo autodeterminato dire semplicemente "non
voglio un figlio".
Per l'approfondimento di tali "paletti" si rimanda alla lettura
integrale dell'art.2, il cui spirito è comunque ben riassunto al
comma d), che prescrive ai consultori di contribuire "a far superare
le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza"
(si noti che l'uso del condizionale prefigura già la Donna - qualunque
donna - bisognosa di tutela e incoraggiamento unidirezionale, nella sua
supposta e presunta incapacità costitutiva di decisione. In ogni
caso non è dato conoscere come si contribuirebbe "a far superare
le cause che potrebbero
": soldi? psicofarmaci? Sensi di colpa?).
La stessa cosa viene ribadita all'art.5: "Il consultorio e la struttura
socio sanitaria [
] hanno il compito in ogni caso [
] di esaminare
[
] le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere
le cause che la porterebbero all'interruzione della gravidanza, [
],
di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole
tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza che dopo il parto
[
]".
Anche al medico, più sotto nello stesso articolo, è prescritto
il compito di informare la donna "sui diritti a lei spettanti e sugli
interventi di carattere sociale cui può far ricorso". Già
fin qui è evidente lo stampo dissuasivo del testo: teniamo presente
sin d'ora (servirà poi) lo scenario che si proporrebbe qualora
anche il poco che abbiamo esaminato dovesse essere attivato per la richiesta
di una "piena applicazione".
Ma se questo non bastasse, lo stesso art.5 prescrive altri tentativi atti
a scongiurare la decisione finale che non dovesse essere quella della
prosecuzione della gravidanza: il medico infatti "valuta con la donna
[
] le circostanze che la determinano a chiedere l'interruzione della
gravidanza". A questo punto la donna esce dalla scena decisionale
già angusta, perché il "carattere di urgenza"
non può essere ravvisato dalla donna stessa, e nemmeno insieme
alla donna stessa come per tutto il resto; no: arbitro per l'urgenza è
solo il medico. Il quale - verrebbe fatto di pensare: con le spalle al
muro! -, se non ravvisa l'urgenza, "di fronte alla richiesta della
donna di interrompere la gravidanza sulla base delle circostanze di cui
all'art.4" (problemi economici, psicologici, fisici ecc.), "[
]
la invita a soprassedere per 7 giorni". Trascorso il biblico termine
di 7 giorni l'intervento potrà finalmente essere richiesto e, obiezione
di coscienza permettendo, aver luogo.
Torneremo alla fine sulla parte dell'art.2 che fa riferimento al volontariato
nei consultori "per i fini previsti dalla legge".
Ma attenzione fin d'ora: "i fini previsti dalla legge" sono
ben dettagliati dall'intero articolo, che non fa minimamente riferimento
all'i.v.g., della quale si inizia a parlare solo all'art.4, in un totale
di 6 righe che definiscono l'ambito temporale in cui è consentita
e i motivi per cui è richiesta ed in base ai quali è ritenuta
lecita.
Dell'art. 5 si è detto.
Se ne riparla all'art.6 in termini di aborto terapeutico, regolamentato
dalle procedure previste all'art.7.
L'art.8 stabilisce quali siano le strutture abilitate agli interventi,
procedure e termini dell'abilitazione, ma soprattutto occulta proditoriamente
la possibilità reale di obiezione di coscienza di un'intera struttura
ospedaliera. L'obiezione di coscienza è l'oggetto dell'art.9, e
se è vero che, tra l'altro, si legge: "gli enti e le case
di cura autorizzati sono tenuti in ogni caso a garantire l'effettuazione
degli interventi richiesti
", occorre tornare all'art.8 e leggere:
"Gli interventi possono altresì essere praticati presso gli
ospedali pubblici specializzati, gli istituti ed enti di cui a [
],
sempre che i rispettivi organi di gestione ne facciano richiesta".
Come accaduto e accade, se l'ente ospedaliero non ne fa richiesta in quanto
l'organo di gestione è formato da obiettori, in quell'ente non
si praticano interventi punto e basta.
Dal punto di vista della fruibilità del servizio restano da salvare
gli artt. 14 e 15, che prevedono la promozione della formazione del personale
da parte delle Regioni, con un apprezzabile riferimento alle "tecniche
più moderne, più rispettose dell'integrità fisica
e psichica della donna e meno rischiose per l'interruzione della gravidanza".
Tutto il resto del testo attiene a questioni burocratiche, all'entità
delle pene per i trasgressori e ai casi relativi alle minorenni (per cui
varrebbe la pena di aprire un capitolo a parte
) e le interdette
per infermità mentale.
Insomma: una legge che si pretenderebbe essere (con evidente falso storico)
una "conquista delle donne" in tema di aborto, di fatto si palesa,
a chiunque si voglia prendere la briga di leggerla, come lo specchio di
un atteggiamento culturale che veicola come "positivo assoluto"
il ruolo di madre e come "assoluto negativo" il momento decisionale
di una donna che non vuole una gravidanza: allo scopo la legge prescrive
norme comportamentali del personale medico e paramedico, rafforzando questo
"esercito della salvezza" con la possibile immissione del volontariato
a tutela della maternità e del concepito (si passa d'un balzo dall'autodeterminazione
alla "tutela") e, per altro verso, contrasta in ogni modo la
decisione di interruzione della gravidanza, che pure dovrebbe essere oggetto
della legge medesima.
Torniamo alla questione, di particolare attualità (sollevata grazie
allo zelo dell'ex Ministro Storace, apripista del Movimento per la Vita),
dell'utilizzo del volontariato nei consultori pubblici.
Con riferimento agli allegati che riportano l'intervento del Collettivo
Donne Diritto di Milano, si nota che anche giuriste politicamente orientate
non certo in senso antiaborista, dopo aver in qualche modo misconosciuto
l'intento dissuasivo dell'art.2, addirittura "valorizzano" la
formulazione riferita al volontariato, per piegarla ad una interpretazione
perlomeno curiosa, quando sostengono che: "l'art.2 prevede la possibilità
di collaborazione volontaria di idonee formazione sociali di base e del
volontariato, con riferimento all'aiuto alla maternità difficile
dopo la nascita, escludendo così i volontari dalla delicata fase
decisionale" (il grassetto è mio).
Rileggiamo però il passo della legge in questione: "i consultori
possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione
volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del
volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile
dopo la nascita".
Ora: i "fini previsti dalla legge" li abbiamo visti; il volontariato
deve essere "idoneo" (si suppone idoneo ai fini) e l'avverbio
"anche" non limita affatto, anzi amplia l'intervento del volontariato.
Anche volendo propendere per una interpretazione addomesticata del passo,
è però lecito supporre che, in presenza di una decisa volontà
politica al riguardo, attivata al momento opportuno, il testo di legge,
richiesto di "piena applicazione", supporti, anziché
scoraggiare, la legittimità della richiesta del Movimento per la
Vita.
Ci si trova poi di fronte alla bizzarria per cui di fatto si ventila la
pretesa applicazione di spezzoni di una stessa legge ritenuti "buoni"
per sperare che altri, ritenuti "cattivi", seguitino a non venire
applicati; e sarebbe una ben strana concezione della legalità quella
che prevedesse, da parte di entrambi i contendenti, la possibilità
di una cernita "ad usum delphini" degli articoli da applicare.
Sorprende che questo si intravveda nell'impostazione delle "difensiviste".
Comunque la si voglia mettere, la legge prevede, eccome, la presenza del
volontariato nei consultori, che infatti è invocata dal Movimento
per la Vita. Non solo: si può evincere dall'allegato prodotto quanta
parte della legge venga chiamata a supportare le richieste e le proposte
di Carlo Casini.
E qui veniamo al nodo centrale dell'intera questione: se, per ottenere
effetti diametralmente opposti, due parti contendenti chiedono la "piena
applicazione" di una medesima legge, qualcosa non quadra; qualcuno
non ha debitamente valutato le conseguenze della "piena applicazione".
E, in effetti, se si guarda all'intera vicenda alla luce dei testi esaminati,
dovrebbe risultare chiaro che, non potendosi esporre al rischio di una
sconfitta con la proposta dell'abrogazione della 194 e il ripristino del
reato d'aborto, il fronte antiaborista cerca - e trova - il miglior alleato
proprio nel testo della 194 "applicato alla lettera", salvo
tornare al braccio di ferro tra i contendenti circa gli articoli su cui
far leva (e va da sé che non sono i medesimi).
Per conseguenza è una svista quella di chi afferma che la 194 sarebbe
"attaccata", magari attraverso il trucco della modifica della
405: l'obiettivo antiaborista è, viceversa, perseguibile "attaccando"
la 405 attraverso il supporto di gran parte della 194 così com'è
e proprio per così com'è.
Nella 405 infatti non si parla di volontariato e l'accento è posto
sui requisiti di professionalità del personale addetto ai consultori,
mentre la 194 parla di "idonee formazioni sociali di base e del volontariato"
senza nemmeno menzionare requisiti di professionalità.
Che l'impianto della 194 sia assolutamente funzionale agli intenti del
fronte antiaborista, che difatti ne chiede (e non certo per finta) la
letterale applicazione, è messo bene in luce dall'articolo di Ida
Dominijanni sul Manifesto del 17.1, anch'esso allegato.
Solo per inciso occorre ricordare che nel 1981 fu indetto un doppio referendum
parzialmente abrogativo della 194: uno del Movimento per la Vita in senso
restrittivo (avrebbe in sostanza lasciato solo l'aborto terapeutico) e
uno del Partito Radicale, che avrebbe scarnificato la legge, epurandola
innanzitutto dall'art.1 (di stampo etico), ma in generale da tutta la
struttura dissuasiva degli articoli 2 e 5, oltrechè dalle restrizioni
dell'art.4 e dal "trucco" nascosto all'art.8 sull'obiezione
di coscienza.
Vinse il "doppio no": entrambe le proposte vennero respinte
e la 194 rimase intatta, proprio così come era stata partorita
dal connubio DC/PCI. Curioso: la Sinistra istituzionale, la stessa che
a suo tempo aveva fatto di tutto per scongiurare il successo divorzista,
e già avvezza al corteggiamento dell'elettorato cattolico, era
riuscita nell'intento di egemonizzare ogni "questione femminile".
Malaccorte in questo senso, le donne in piazza, le stesse che avevano
aborrito quella legge, gridavano ora "giù le mani dalla 194"!
Il PCI aveva riportato sotto la sua ala la maggior parte del Movimento,
che non aveva colto l'occasione per rendere la legge più avanzata
e meno "eticista". L'argomento a favore del "no" al
quesito referendario radicale era quello per cui l'i.v.g. avrebbe poi
potuto essere praticata anche nelle strutture private.
Mi limito ad osservare due cose: nelle strutture private si continua a
poter partorire (cosiccome a poter usufruire di ogni altra prestazione),
senza che questo comporti il venir meno da parte dello Stato dell'obbligo
di fornire il servizio sanitario; inoltre limitare al servizio pubblico
proprio l'i.v.g. significa di fatto consegnare al controllo statale il
corpo delle donne (così come in precedenza denunciato dal Movimento
femminista): lo Stato monopolista mi dirà - mi dice - come, se,
quando e per quali motivi posso abortire.
Forse quel doppio no fu un errore, ma qui siamo davvero nell'ambito delle
opinioni che mi riproponevo di evitare.
Quel che ci fa tornare ai fatti storici è che in ogni caso da lì
ebbe origine, anche e soprattutto tra le donne, il filone "difensivista"
e - mi permetto di dire - "totemista" sulla 194, che fece piazza
pulita delle originarie istanze femministe, le quali - chissà -
potrebbero, magari con profitto, "uscire dal silenzio".
Il culmine della reazione: la legge 40 sulla procreazione medicalmente
assistita.
E' cosa recente e nota. In questa sede non c'è spazio per l'argomento,
pur rilevantissimo, della ricerca scientifica.
Il cenno indispensabile è quello riferito al trait d'union tra
l'art.1 della 194 (la tutela della vita umana "fin dal suo inizio")
e la new entry tra le figure giuridiche, inaugurata dalla legge 40: l'embrione.
Essendo l'intento quello di evidenziare la sequenza, scandita dalle leggi,
che da una rivoluzione di stampo laico e libertario porta alla reazione
di stampo restauratore, ci si limita qui a constatare innanzitutto l'assurdo
giuridico generato dalla legge 40: l'embrione gode di diritti primari
e prevalenti rispetto alla possibile futura madre quando si trova ancora
all'esterno dell'utero di questa; perde in un sol colpo tali diritti una
volta inoculato, potendo essere abortito, per ritrovarsi di nuovo titolare
di diritti una volta fattosi neonato e uscito dal "contenitore".
Conclusioni
Per come sono andati i fatti storici scanditi dalla sequenza delle leggi
405, 194 e 40 sembrerebbe di assistere alla messa in scena (drammatica
quando non tragica) di una contesa a colpi di leggi tra Stato/Chiesa e
Donna (i primi non contemplano "le" seconde), contesa che in
ogni caso ha per oggetto, in un crescendo di contorsioni giuridiche, il
corpo femminile e la sessualità, quasi simbolici detentori del
potere di vita e di morte.
Che la sessualità sia stata in qualche modo liberata dal vincolo
procreativo all'interno del matrimonio, e che questa liberazione abbia
trovato un riscontro giuridico nella legge 405, tutto questo sembra aver
prodotto un rigurgito reazionario, il cui riscontro giuridico è
evidente nelle leggi successive, che penalizzano scelte di libertà
sia nel caso in cui una donna non desideri la maternità sia nel
caso esattamente contrario.
Si potrebbe terminare domandando se sia proprio frutto di arbitraria opinione
concludere sinteticamente che:
a) quella che in realtà andrebbe "difesa" è la
legge 405, semmai mirando ad ampliare esplicitamente le funzioni dei consultori:
l'uso del profilattico, ad esempio, non è necessariamente funzionale
alla contraccezione ma anche a garantire rapporti protetti, esistendo
con auspicabile pari dignità diverse forme di sessualità
(omosessualità, lesbismo, transessualità), e posto quindi
che la "salute sessuale" è diritto di chiunque.
b) la legge 194 non è un totem, proprio perché è
di stampo reazionario. La sua formulazione non è l'unica possibile
per fronteggiare la clandestinità dell'aborto e l'intervento che
interrompe la gravidanza può (dovrebbe?
) essere compreso
nel novero di ogni altro intervento garantito dalla sanità, pubblica
e privata, senza che lo Stato abbia il monopolio degli aborti dettando
persino i principi morali cui attenersi e con ciò stesso divenendo,
come si è visto, "Stato Etico".
c) la legge 40 può essere smantellata: il referendum non è
stato "perso", ma stravinto da un quorum per legge insufficiente.
Se la legge referendaria non avesse previsto il quorum (ovvero se anche
lo avesse ridimensionato), come in altri Paesi, non ci sarebbe stata alcuna
campagna astensionista: i "no" si sarebbero, in un dibattito
limpido, confrontati con i "sì". E la campagna astensionista
dice che il numero presumibile di quei "sì" faceva paura.
Per tutto questo, certo, occorrerebbe la capacità politica di individuare
il momento propizio, per il quale possiamo ancora prenderci un po' di
tempo (speriamo
), prima che alla prossima folata di vento favorevole
altri non provveda ad assestare nuovi colpi proprio con l'aiuto offerto
dal contenuto formale e sostanziale della 194.
Così come sarebbe fondamentale che le donne ripercorressero con
serenità di giudizio la propria storia, che è portatrice
di un patrimonio di cui riappropriarsi.
Solo allora si potrebbe iniziare ad andare oltre facili slogans difensivisti
quanto improduttivi, e cercare assieme strategie e possibili alleanze
per tornare ad imporre le istanze irrinunciabili di una libertà
autentica a livello anche istituzionale - perché è lì
che, piaccia o meno, concretamente vengono messe in gioco l'esistenza
e la dignità dei singoli e delle singole, è lì che,
in assenza di interazioni, possono prodursi conseguenze pesanti per tutti
e per tutte.
Pensarsi organizzate nella costruzione dei presupposti di un'azione politica
volta a cambiare la qualità del tessuto istituzionale non significa
affatto differenziarsi strategicamente da chi - penso agli interventi
di Lea Meandri e molte altre - ravvisa la necessità di tornare
a rendere centrale il dibattito sulla sessualità: significa semmai
aggiungere alla ricchezza delle ri-elaborazioni un piano ulteriore di
riflessione circa la possibilità e la natura del rapporto con le
istituzioni.
Questo lavoro ha pertanto anche la pretesa - certo immodesta - di riaprire,
sul binario della possibilità di un tale rapporto, un dibattito
troppo presto esauritosi nel pantano di logiche approssimative e, peggio,
nell'oblio delle origini di un pensiero forte.
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