Interventi di Laura Colombo e Sara Gandini all'incontro che si e' tenuto a Settembre in libreria "Donne a Genova (e No)" | ||
Vignette di Pat Carra | ||
Genova di Gabriella Lazzerini | ||
Il desiderio di esserci di Sara Gandini | ||
Corpi di Laura Colombo |
Che cos'è capitato
a Genova? Molto in breve, è capitato questo, che il movimento "per
una globalizzazione delle possibilità di essere felici " (il nome
l'ho coniato io, quelli correnti non mi piacciono), detto anche il movimento
dei movimenti, nella ricerca di un protagonismo più visibile e riconosciuto,
è andato troppo vicino all'avversario (cioè, i sostenitori del
liberismo a tutto campo) e ha preso un grave colpo.
Che cosa intendo? Intendo che l'avversario, probabilmente con una mossa ben
calcolata, basata sulle esperienze analoghe del passato, manipolando (o confezionando,
che importa) un gruppo di ultraviolenti, ha puntato a rovinare l'immagine mass-mediatica
del movimento, occupando lo schermo televisivo e le pagine dei giornali con
lo spettacolo delle distruzioni violente. "Voi volete rovinare la nostra
festa? E noi rovineremo la vostra": questo è stato il ragionamento.
Purtroppo il colpo è andato a segno. Il movimento ha perso una parte
del credito che stava guadagnando rapidamente e diffusamente; ora la sua immagine
rischia di confondersi con quella di un movimento di contestatori; i suoi responsabili
sono già risucchiati nella spirale di dover indire manifestazioni contro
la repressione, per la democrazia, e di dover fare battaglie legali e parlamentari
per ristabilire un minimo di verità, finendo così su un terreno
che interessa solo una minoranza, e sempre a ridosso dell'avversario, con una
perdita di forza espansiva e di signoria.
Torno indietro nel tempo. Il 3 giugno scorso, Naomi Klein, l'autrice di No Logo, è stata ospite della Libreria delle donne di Milano dove si è discusso di "politica del simbolico", cioè di una politica che non si fa con la forza dei muscoli, che non si appiattisce sull'economia né si limita a correggere l'economia con i diritti, ma che fa leva sui desideri e sulle relazioni, per un senso più libero e personale del vivere e della convivenza. Ebbene, a un certo punto Naomi Klein ha detto (cito a memoria): "Conviene lottare dovunque, nei contesti più diversi; forse l'appuntamento di Genova sarà l'ultimo di questo tipo (megamanifestazioni) ed è meglio così". Ci fu un applauso. Abbiamo applaudito alla sua intuizione dei limiti delle manifestazioni di piazza, e alla sua fiducia verso le nuove pratiche politiche.
Uno sbaglio (rimediabile, io credo e spero) è stato di mettersi a dipendere dal sistema dei mass-media per la propria esistenza simbolica. Tutti i mezzi di questo mondo, compresa la Rete, sono secondari e tali devono restare, rispetto alla capacità di praticare relazioni vive, forti, capaci di farci sentire bene con le/gli altri, relazioni in cui ci sia scambio di cose essenziali (sapere, amore, piacere ) e che ci facciano cambiare in meglio, nel senso di darci più libertà e più gusto di stare al mondo. Questa è politica prima (secondo il nome che le abbiamo dato nel Sottosopra rosso, quello della fine del patriarcato), praticata dal movimento delle donne, ma sempre di più anche dalle persone, giovani e meno giovani, disgustate della politica ufficiale. È politica prima anche trovare le parole e le immagini per tutto questo, e farle circolare: il lavoro delle artiste e degli artisti sta diventando perciò sempre più importante, non meno di quello dei giornali e della Rete.
Un altro punto che fa problema, secondo me, è l'aspirazione a diventare interlocutori dei sedicenti "grandi", in questo caso gli otto capi di governo che si sono riuniti a Genova. Secondo alcuni, sarebbe senso di responsabilità; io penso che sia un confondere i piani e finire sul terreno dell'avversario. Non si deve entrare nell'idea della rappresentanza, ossia credere di rappresentare gli interessi di tanti altri, e pretendere di farli valere con (o contro) i detentori di questo o quel potere, fossero pure, come in questo caso, personaggi eletti legalmente (democraticamente, sarebbe dire troppo). Gli interlocutori di un movimento non sono i potenti, ma le innumerevoli persone silenziose che possono essere contagiate. La forza dei movimenti cresce finché essi hanno la forza incalcolabile del contagio, spingendo le/gli interessati a farsi protagonisti delle loro vite e a negare ogni involontaria complicità con il dominio. Questa sottrazione di sé al sistema del potere, per cominciare a inventare un altro mondo, è la mossa vincente, come dimostrano i fatti: io ho in mente specialmente i fatti della rivoluzione femminista e femminile contro il dominio patriarcale.
Infine, un'autocritica.
Molto di quello che ho scritto qui, io e altre meglio di me, lo sapevamo da
prima. Anche la mossa dell'avversario era prevedibile da prima, almeno da parte
di chi ha una storia come la mia, che comincia negli anni Sessanta e si è
sviluppata nei movimenti non organizzati. Ma non abbiamo parlato, non siamo
intervenute. Saremmo state ascoltate? Non lo so, ma valeva la pena esporsi a
questa prova e, forse, si doveva. C'è bisogno di più autorità
femminile in questo cambio di civiltà e, perché ci sia, bisogna
che la conquistiamo esponendoci in prima persona. La pratica della relazione,
affidamento compreso, è fatta (anche) per questo.
Oggi devo parlare
oggi che soffiano girandole
di menzogna
le macerie
di questo carnevale
sotto gli occhi di tutti
le macerie
della triste quaresima di fame
sullo sfondo in un angolo
disattese per sempre
Genova dove sei Genova
ti amo dell'amore maledetto
di tante figlie per la propria madre
io che ho imparato a palpitare
tra le tue salite e i tuoi vicoli
io fibra nervo neurone
della tua anima schiva e passionale
Genova placida assonnata e violenta
platea pertugio ricettacolo
rimbalza nei racconti
la tua paradossale geografia
che ottusità legare con cancelli
la fantasia di infiniti intrecci
che ottusità negare
la fantasia di viste cangianti ad ogni angolo
Genova che sei nata senza
piazze
Genova donne gagliarde e voce flebile
Genova che dolore questi figli
attraversati dal gioco della guerra
forti di una divisa o una ripulsa
sordi e ignoranti per parole altre
ostaggi muti di un potere che langue
Genova no non sono equidistante
Genova mi atterriscono le metafore
il linguaggio azzimato dei politici
ruba il respiro più dei lacrimogeni
schierati su due campi vedo
i fratelli stizziti sconfitti o trionfanti
ciechi all'eredità di questo secolo
Genova non beati forse immemori
ho lasciato i miei cari nel riposo
nessun sussulto li può risvegliare
loro sapevano da che parte stare
quello che per compagni ebbe le lapidi
di tutti i cari amici partigiani
e un giorno aprì le porte alla follia
quella che vide il partito disperdersi
e alla fine si arrese al sole nero
Genova non più casa cimitero
di ingenue aspettative neonate
io lo so che i cortei non danno pane
che non c'è pena per i ladri d'acqua
di salute di fiato di speranza
che d'oro sono le nostre catene
che di simboli veri urge la fame.
Gabriella luglio 2001
Sabato ero a Genova, in
una bellissima giornata di sole.
Il clima era però torvo.
Non solo per i fatti del giorno precedente e per l'omicidio commesso, ma per
l'aria stessa che si respirava.
A dispetto della moltitudine di uomini e donne, giovani e meno giovani, che
affollavano le vie, e della voglia di esserci e di stare insieme nelle pubbliche
piazze, il clima di tensione toglieva ogni sorriso e spostava l'asse rispetto
ai motivi originari per cui ero lì, in insieme a tanti altri.
Lentamente mi sono incamminata, lentamente le migliaia di persone si sono mosse
nel deserto della città svuotata, solo poche donne lanciavano acqua dai
balconi, breve sollievo all'implacabile sole.
A ogni incrocio vedevo una gran quantità di uomini della polizia schierati,
in lontananza.
Sono capitata alla fine del cosiddetto secondo spezzone. Sono scappata indietro,
quando la polizia ha fatto irruzione nel corteo per isolare una parte di esso,
e martoriare chi era lì, con i lacrimogeni.
Ho avuto paura.
Correndo ho provato un senso di mancanza totale di libertà. Quella libertà
di livello elementare, la libertà di un corpo che è presente e
si può muovere, può camminare, volteggiare, saltare, avanzare
e indietreggiare. Io ero lì ma non avrei dovuto esserci, la violenza
della polizia che avanzava per entrare nel corteo, senza che io trovassi motivi
evidenti per ciò che stava accadendo, stava a significare che avrei dovuto
essere altrove. Ma è un altrove che non ho trovato, né sabato
né oggi, perché è l'altrove della presenza negata, è
l'altrove dell'impossibilità di stare dove desidero stare, con altri
e altre. Non voglio trovare questo altrove, ma vorrei trovare un senso che trasformi
la mia paura e il sentimento di mancanza di libertà in qualcosa di segno
opposto, trovare l'azione giusta che plachi il terrore che ho visto dipinto
sui volti, uno fra i tanti quello di una donna anziana di Pistoia annientata
dal panico.
Forse una prima risposta è esserci con il mio corpo intero, che volteggia
con altri corpi.
Sono stata molto incerta
sul fatto di andare a Genova. A parte la paura, sono sempre stata contraria
ai teatrini adolescenziali che spesso si vedono in manifestazione, alle garette
falliche dove si mostrano i muscoli, si deve vincere l'avversario perche' senza
nemici la forza svanisce.
Pero' mi sono resa conto che andare a Genova, essere la', con le mie orecchie
e il mio corpo, aveva per me un senso.
Fino a poco tempo fa non mi spiegavo il mio desiderio di partecipare alle manifestazioni.
Scendere in piazza era un'esperienza che mi faceva stare bene, che sentivo mi
dava molto, ma che razionalmente non riuscivo a capire fino in fondo e soprattutto
a far quadrare politicamente.
Ho fatto maggiore chiarezza dentro di me quando ho visto, al circolo della rosa
di Milano, il video con l'intervista a Ebe de Bonafini intitolato "la piazza
delle madri dal fazzoletto bianco" sulle madri di Plaza da Mayo. Nella
discussione che e' seguita, Luisa Muraro poneva l'accento sull'importanza di
un'invenzione politica capace di trasformare la realta'. Per le madri argentine
di Plaza de Mayo negare pubblicamente la morte dei loro figli ha voluto dire
sottrarsi alla logica della rivendicazione, che le avrebbe portate solo a chiedere
giustizia per loro morti e a pretendere risarcimenti economici. Queste donne,
manifestando un'energia autentica che prima di tutto parte da se', sono risultate
invincibili dalla dittatura. Ebe affermava inoltre che per lei e le altre donne
e' importante mettere il proprio corpo in piazza perche' questo contribuisce
a prendere consapevolezza rispetto al loro agire in quella situazione politica,
mentre i loro uomini, occupati a produrre documenti e a discutere di appartenenze
partitiche, finiscono con il sentirsi impotenti.Ebe de Bonafini sosteneva che
ogni volta che arriva in quella piazza, luogo reale di corpi, di forza femminile,
sentiva un'emozione incredibile. Mi sono resa conto che anche per me l'esperienza
di stare in piazza e' un'esperienza appassionante: per esempio il fatto di essere
a Genova il 21 Luglio e ritrovare quei corpi, di donne e uomini, insieme tanti
colorati diversi rumorosi, nonostante le violenze del giorno prima, lo leggo
come l'espressione del desiderio soggettivo di esserci e la forza della testardaggine
di voler comunicare e trasformare la realta'.
Ma a Genova l'emozione che ha prevalso, che mi ha come sommersa e' stata il
terrore.
Sabato pomeriggio, mentre stavamo per raggiungere il concentramento della manifestazione
sentivamo da radio Popolare che c'erano scontri dappertutto, sia dietro di noi
sia davanti. Cercavamo di tenere gli occhi aperti, soprattutto quando incrociavamo
qualche via trasversale. Ed ecco che, quando eravamo sul lungomare, in una via
sulla destra ho visto i poliziotti muoversi contro il corteo. Erano tantissimi,
in tenuta antisommossa, e continuavano ad avanzare contro di noi. Ero terrorizzata,
mi chiedevo: ma che fanno? Perché ci vengono addosso?
Arrivano a pochissimi metri da noi: "cosa facciamo? Corriamo avanti? Torniamo
indietro?"
I ragazzi del servizio d'ordine urlavano: "Corteo corteo!!!"
Mi sono ritrovata in una vera e propria trappola per topi: strada strettissima,
a sinistra un salto di 20 metri sul mare, a destra le case. Non si poteva fuggire.
Claustrofobia. Una marea infinita di persone, di tutte le eta', persone anziane
insieme ai bambini, persone in carrozzella, le une addosso alle altre. Si respirava
a malapena.
La polizia ci ha attaccato da ogni lato; i lacrimogeni erano lanciati dai tetti
su chiunque. Non si respirava e non si vedeva nulla. Ero sempre piu' atterrita!
Erano lacrimogeni speciali, incredibilmente forti. Mi mancava l'aria. Mi bruciava
il viso, la gola, gli occhi. Per parecchio tempo ho sofferto di male allo sterno,
ai polmoni.
Alcuni vicino a noi sono stati colpiti in pieno sulla testa dai candelotti,
e feriti anche in modo serio.
Tutti correvano cercando di non calpestarsi gli uni con gli altri.
Ho visto gente svenire.
Si e' rischiata una vera tragedia. Gli uomini della polizia che sembravano mandrie
impazzite
L'insensatezza di una violenza come questa, mai vista prima, mi ha provocato
un forte senso d'impotenza e una rabbia enorme.
Che "i neri" fossero d'accordo e in ogni modo funzionali alle azioni
di violenza della polizia era chiaro a molti. Comunque i cordoni del corteo
hanno fatto di tutto per cercare di isolare e impedire ai provocatori di arrecare
danni e di entrare nel corteo. Ci sono state testimonianze di bravura, disponibilita',
solidarieta' eccezionale da parte delle persone in corteo, che hanno saputo
controllare la paura, senza far prevalere il panico, aiutandosi gli uni con
gli altri, e anche da parte dei genovesi. Applauditissime sono state due vecchiette
che dai loro balconi buttavano acqua in continuazione su chi manifestava, perché
c'era un caldo terribile. Provvidenziali sono state le porte delle case che
i genovesi aprivano per dare riparo ai manifestanti che scappavano dai lacrimogeni
e dalla polizia. Ricordo anche la maglietta di un ragazzo che sulla schiena
aveva scritto: "Se me le date ve la vedrete con mia madre!!".
Nonostante le violenze e il clima d'intimidazione 300 mila persone hanno manifestato
con forza e coraggio, ma la sensazione di essere tornati in un clima da regime
era forte...
La sensazione era di assoluta mancanza di liberta': di non potermi muovere,
di non poter discutere, di non contare nulla.
Quello che io desidero è mettermi in gioco a partire dal mio corpo sessuato,
e ascoltare cio' che l'esperianza della centralità del corpo mi comunica
e mi insegna. Questo sapere lascia tracce indelebili e apre orizzonti imprevisti.
A Genova ho sperimentato lo scacco di questo mio desiderio, a causa di ragioni
che, pur essendo parte di una strategia lontana dai corpi, i corpi imprigiona
e reprime nei movimenti vitali.
A Genova ho imparato la paura per la polizia. Allibita ho capito che con questi
uomini le mie parole sono inutili...